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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Tra fuoco e veleno

Due piccoli episodi di cronaca della Forlì del 1913: dei tre bambini, solo due sopravvissero

Volete prima la notizia bella o quella brutta? In queste giornate afose si riportano due storie entrambe accadute nel 1913 in strade vicine, nel Rione Schiavonia. Entrambe riguardano dei bambini: una va a finire bene, l'altra no. Seguendo i nomi, forse tra chi riscoprirà queste vicende emergeranno discendenti, parenti, chissà, portatori di integrazioni anche emotive. I protagonisti sono tre bambini e presumibilmente quello più piccolo non ce la farà per un funesto equivoco.  Che altro dire, le si leggano anche per comprendere la quotidianità popolare della Vecchia Forlì, con i suoi slanci di generosità e le sue tragedie intime. 

Una triste storia si legge tra le pagine del Pensiero Romagnolo del 12 ottobre 1913. “L'altro giorno - esordisce con ingenua vaghezza il periodico forlivese - la moglie dell'operaio Amleto Paganelli, abitante in via del Pozzo, si recò alla farmacia dell'Ospedale con una ricetta del dottor Enrico Bofondi per prendere acido tannico onde fare un clistere al figlioletto Antonio di anni 2”. E proprio in questa circostanza si consumò il “funesto equivoco”. Infatti: “La commessa, signorina Rosella Buda, lesse acido fenico e pose sulla bottiglietta la morte e lo stampatello per uso esterno”. Inutile precauzione, il teschio e l'avvertenza, perché questa vicenda finì malissimo. “La povera madre somministrò la cura che in breve tempo uccise il povero malato”. La famiglia precipitò nella disperazione.

Si legge: “L'angosciato padre ha scagionata l'infelicissima moglie da qualsiasi responsabilità ed ora invoca che si provveda per l'accertamento rigoroso del mortale errore”. Il fenolo, o acido fenico, altamente tossico anche a lungo termine, e corrosivo, è stato ingrediente anche per le iniezioni letali nei campi di sterminio. L'acido tannico, invece, è un eccipiente naturale che in farmacia è usato come amara medicina per sedare infiammazioni, come astringente o cura per molti avvelenamenti. Era un martedì, precisamente il 26 agosto 1913, quando si sviluppò un “piccolo incendio al numero 5 di via Battuti Verdi”.

La disgrazia – una vera estate di fuoco - in quel di Schiavonia avvenne “in una camera al terzo piano per imprevidenza di due bimbi che giuocavano con fiammiferi durante l’assenza della madre uscita a prendere medicine”. Un’esperienza che ben presto si rivelò drammatica: “il fuoco si appiccò al letto su cui giacevano i bimbi, i quali, impauriti, si diedero a gridare disperatamente”. Ma si arriva a una svolta, e fin da adesso si può rivelare che il lieto fine non manca. Sospiro di sollievo.

La cronaca, leggibile entro un piccolo trafiletto sul Pensiero Romagnolo del 31 agosto 1913, così continua: “Accorse l’inquilina Castelli Adele che abita allo stesso piano dirimpetto e tra il fumo e le fiamme si avventurò al letto dei bimbi portandoli via un dopo l’altro in braccio e salvandoli così da certa morte”. Insomma, la lezione a quei due bimbi (dei quali l’età resta un mistero) fu presto fatta: non si scherza col fuoco. Figuriamoci d’estate, poi! E grazie all’altruismo eroico di Adele Castelli, amorevole e generosa vicina di casa qualunque, la cronaca di questo fatto non finisce con un doppio funerale.

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