Un museo a Porta Schiavonia
L’idea suggerita da un’originale tesi di laurea che intende restituire a Forlì la memoria della storia antica e della Via Emilia
Ogni tanto spuntano tesi di laurea interessanti con argomenti riguardanti proposte per Forlì. Il Foro di Livio con curiosità cerca delle idee concrete per la città che uniscano la storia alle ambizioni (non velleitarie) di rendere il “meditullium” (cioè il baricentro, come affermava Dante) della Romagna, veramente tale.
Ecco dunque un progetto che viene da Maikol Mazzotti, neo dottore in architettura di San Vito di Rimini: “Mi recavo almeno una volta a settimana all’Università di Parma per frequentare le lezioni alla Facoltà di Architettura. Questi miei spostamenti riprendevano in parallelo il percorso storico della Via Emilia” e aggiunge: “Credo che da questo nasca l’idea di creare un polo sulla Via Emilia, in una città baricentrica per posizione in Romagna e in un’area che si potesse prestare ad un intervento di rigenerazione urbana”. Insomma, Mazzotti percorrendo la strada consolare s’imbatte nella Porta Schiavonia e capisce che è quello il luogo giusto per sviluppare la sua idea. La tesi, discussa con l’architetto prof. Carlo Quintelli, prevede pure “la riscoperta di una parte del basolato storico della via Emilia per una sua musealizzazione e mostra al pubblico a rimarcare le origini romane di Forlì”.
Ecco, già dopo questa prima chiacchierata viene subito in mente di ricordare quanto sia urgente e necessario riallestire il Museo Archeologico di Forlì che il ventunesimo secolo non ha mai visto aperto. Mazzotti ha vissuto all’estero dopo la prima laurea in Ingegneria Edile e, come dice “gli anni trascorsi fuori dal Bel Paese mi hanno legato ancor di più alle mie origini e credo che studiare qualcosa che ci appartiene storicamente sia sicuramente un privilegio e un dovere del cittadino”.
Maikol Mazzotti vede, nel suo progetto, il complesso monumentale del grande arco settecentesco come “un’officina al servizio della formazione, ospitando mostre permanenti e temporanee”. Scendendo nello specifico, si propone di ricostruire l’androne “nelle forme e nelle dimensioni originali” secondo una “morfologia autentica ma declinata in funzioni e materialità contemporanee”. Il museo prevedrebbe, al piano terra, una galleria dalle dimensioni di 9x21 metri, e alto 11: uno spazio, questo, da destinare a mostre temporanee perché “vive del rapporto diretto con il flusso pedonale e ciclabile”. Potrebbe fungere pure da “teatrino”, dove “gli attori si esibiscono al piano terra e il pubblico osserva lo spettacolo dalla navata della galleria e dai due livelli superiori”.
Accedendo al primo piano si entra nella torretta dove troviamo un allestimento di opere in parte permanenti, in parte temporanee. Inoltre, “grazie a una scala che corre lungo il perimetro si giunge alla quota del secondo livello, attraverso un percorso che consente scorci visivi dall'interno verso l'esterno”. Il giovane dottore in architettura lascia fiorire suggestioni: “essendo lo spazio coperto si ha la sensazione di essere in uno spazio protetto e che invita ad una visione eliocentrica delle opere presenti e stimola l'immaginazione sulla funzione difensiva che doveva avere in origine la rocchetta”.
Nel secondo piano si entra nell’androne, cioè il volume ricostruito posteriormente alla facciata principale della Porta. Qui, spiega Mazzotti: “siamo invitati alla lettura tramite pannelli espositivi permanenti”. Infatti vi potremmo trovare testimonianze che parlino “del luogo e delle persone del Quartiere Schiavonia”. Il percorso prosegue discendendo la scala in acciaio corten, in relazione con la galleria e in visuale diretta all' ultimo piano inferiore, che si trova a un dislivello di nove metri.
Il museo prosegue con il piano “Via Emilia ritrovata”. Così precisa: “Scendiamo attraverso una scala monolitica in cemento armato, in uno spazio di 9x15 alla quota di meno 2,7 metri. Davanti a noi si palesa il basolato romano della Via Emilia. Attraverso dei passaggi costituiti da grate metalliche abbiamo la possibilità di muoverci e passare da una parte all'altra della strada ritrovata posta a una quota di meno 3 metri”. Spazio, questo che “può trasformarsi in una piccola sala conferenze, direttamente sulla strada romana ritrovata”. Nella sala a fianco, oltre ai servizi per il pubblico, “troviamo una piccola esposizione di resti archeologici risalenti all'epoca romana. Si esce dal museo risalendo l'antico fossato attraverso una leggera rampa ricreata e che ci riporta così frontalmente alla porta. L'intero percorso museale è accessibile a tutti gli utenti e i vari piani collegati da ascensori”.
Rimarrà un'ipotesi sulla carta o è un'idea che potrebbe avere degli sviluppi? Condividere proposte fa sempre bene a una città che vuole crescere. Ora, se qualcuno fosse interessato ad approfondire ben venga. Resta il fatto che spesso la maggioranza dei forlivesi dimentica che la città è tagliata da un tratto di quel prodigioso asse di 250 chilometri chiamato Via Emilia, traccia che persiste – senza tempo - da due millenni e due secoli. È dunque una strada monumento che fa impallidire strade americane rese mito da epopee letterarie novecentesche. L’arco di Forlì nella foggia attuale risale al 1743 e per un impeto di buon senso e buon gusto non fu atterrato dagli amministratori otto-novecenteschi che già non consentirono ai posteri di godere di mura e di altri manufatti difensivi. Resta inoltre il fatto – e lo si ripete pur sapendo di risultare tediosi – che la storia antica di Forlì ha bisogno di essere riscoperta soprattutto consentendo l’esposizione delle preziose testimonianze che da troppo tempo sono chiuse, imballate e nascoste alla vista di chi ama questa strana città.