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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Una resa vergognosa

Estate 1283: il “ribaltone” dopo l’epopea del Sanguinoso Mucchio. Questa volta la spunterà un altro Guido, un po’ inglese, un po’ francese

Il periodo d’oro della Forlì comunale ha il suo termine nella primavera del 1283. Nel maggio di quell’anno, infatti, papa Martino IV nominò capitano generale delle milizie della Chiesa impegnate in Romagna un personaggio che lo storico Marchesi nomina “Monforte”. Si tratta di Guido di Montfort, antidoto che Roma escogitò contro l’omonimo da Montefeltro. Tra le caratteristiche che accomuna entrambi sono la loro collocazione nell’Inferno dantesco: in particolare, l’inglese è tra gli assassini nel VII cerchio. Scopo di costui, appunto, era riportare sotto il controllo papale Forlì, ultima città ghibellina. Compito arduo ma, si sa, i francesi di papa Martino IV al dito avevano legata la vicenda del Sanguinoso Mucchio, l’onta di un potere universale vinto da una piccola città. In alcune miniature in effetti si vede questo Pontefice raffigurato nell’atto di trafiggere l’aquila imperiale. Un anno dopo, quindi, si prepara il secondo capitolo della saga, e questa volta andò a finire male: se ne sa un po’ meno perché Forlì ne uscirà a pezzi e infangata nella vergogna. Nessuna battaglia memorabile, solo una specie di partita a scacchi truccata, un episodio da dimenticare ma che sarà il primo passo per una Forlì nuova. Perse, sì, ma avrà modo di riaversi e di reinventarsi senza rinnegare il suo animo controcorrente e ghibellino.  

Guido di Monforte era un condottiero inglese di ascendenze francesi, signore di Leicester e conte di Nola, figlio di Eleonora Plantageneta d’Inghilterra. La notizia del suo arrivo imminente si sparse ben presto e già il 26 maggio, per precauzione, Guido da Montefeltro aveva rinforzato Villanova con una fortificazione che difendeva Forlì attraverso una cintura con Oriolo e Cassirano ai capi. 
Si sa tuttavia che nel giugno del 1283 Monforte era già a Villafranca “estraendo molti grani per le sue genti, e anche fieni per i cavalli”. Guido da Montefeltro ben presto si diresse a Poggio dove ordinò che “si segassero i grani” che “a gran fatica si portarono dentro Forlì”. Come in una partita a scacchi, l’esercito guelfo si muoveva e quello ghibellino cercava di interpretarne la strategia. Monforte aveva intenzione di raggiungere Forlimpopoli ma più o meno all’altezza di Pievequinta fu intercettato dal Montefeltro che fece in tempo a rinforzarsi con altri 400 fanti. L’inglese giocò sporco e corruppe con una grossa somma di denaro “quelli della Bastia del Ronco”. Nel frattempo, l’altro Guido era a Bagnolo ma la corruzione ebbe buon esito per il Monforte che ottenne così via spianata verso Forlì. Ciò, peraltro, “li diede agio in oltre di travagliare la Città”. 

Fu estate, un’estate di “continua molestia” da parte dell’esercito del Papa, e i forlivesi si rivelarono ben diversi da quelli dell’anno precedente. Infatti il 25 agosto “principiarono à trattare d’arrendersi” e, benché “astretti”, consentirono “con poca honorevolezza” tutto ciò che il Monforte chiedeva. Si parlava di “trattati clandestini” e Guido da Montefeltro ne era all’oscuro: anzi, stava organizzando un’altra reazione ritirato in luogo sicuro a Forlimpopoli. Il dolore del condottiero ghibellino dev’essere stato intenso e insopportabile: “quando li pervenne all’orecchio, proruppe in parole molto ingiuriose contro i Forlivesi, e con molti de’ suoi se ne passò l’Alpi e abbandonò del tutto il paese”. In realtà venne scomunicato e costretto all’esilio; la sua sorte avrà altri colpi di scena che s’approfondiranno eventualmente altrove.  

A settembre seguirono le capitolazioni, un accordo in otto punti che un forlivese vecchio stampo avrebbe considerato degradante. Ecco, dunque, ciò che chiedeva “il Conte di Monforte Capitano di Papa Martino IV”: “Che per niun conto si debba più ricordare il Conte Guido da Montefeltro, Capitano de’ Forlivesi”, “Che mai più si ricordi l’Imperatore, e quel censo che gli si dava si debba dare alla Camera Papale, cioè mille scudi d’oro per ciascun anno”, “Che tutta la parte de’ Lambertazzi di Bologna (i ghibellini) sia cacciata fuor di Forlì, e sia bandita per rebelle”, “Che il popolo di Forlì spiani tutte le fosse della Città, e getti a terra le muraglie che la circondano, e specialmente quelle che riguardano verso Roma”, “Che il popolo Forlivese habbia da ricevere Governatore Ecclesiastico in persona del Papa: e che non possa farsi conseglio senza sua saputa”, “Che sia cacciata da Forlì tutta la parte Ghibellina”, “Che il popolo Forlivese habbia governo popolare: Priori, Consoli, Consiglieri come pare e piace à loro, mà insieme con il Governatore Ecclesiastico in persona del Papa, senza il quale non si possa fare cosa veruna”, “Che il popolo Forlivese possa mettere Podestà, e Capitano à sua elettione, purché amico della Chiesa, e che il Papa, overo per Sua Santità il Governatore, ò Legato, ò Presidente l’habbia à confermare in Forlì”. 

Perché tanta improvvisa remissività? Pare che la devastazione messa in essere dall’esercito pontificio fosse stata terrificante e anche i più inflessibili forlivesi trovavano migliore un patteggiamento col carnefice pur di non continuare a sopportare soprusi d’ogni genere. Insomma, ciò bastò perché “li Forlivesi giurarono fedeltà al Sommo Pontefice in mano del Conte sudetto di Monforte”, molti ghibellini furono mandati “su gli Appenini” e Paganino Orgogliosi venne eletto Podestà: Rainaldo de’ Calboli (di nota stirpe guelfa) sarebbe stato il nuovo Capitano. Roma mandò in Romagna, come legato, il futuro papa Niccolò IV e il cardinale Giacomo Colonna, con l’esplicita missione di “mettere senza remissione in esecuzione gli accordi in vendetta della sconfitta data l’anno antecedente” (si riferisce al Sanguinoso Mucchio). Insomma, ecco le conseguenze: furono spianate le fosse, e “gettarono per terra tutte le mura di Forlì, cominciando prima dalle Porte, e da tutte le fortificationi, e lasciarono la Città aperta per tutto il suo giro”. Non fu abbastanza per il Papa francese, infatti “volle ancora Cesena che già si manteneva sotto i Forlivesi, affinché questi non havessero quell’occasione per annidarvisi”: così anche da quelle parti caddero altre mura e altri castelli. L’episodio aprirà, nel giro di un paio di decenni, al trapasso definitivo dall’età dei Comuni a quella della Signorie: i ghibellini Ordelaffi stavano già facendo le prove per intronarsi con una certa stabilità nella strana città romagnola. 

Cobelli, da cui Marchesi in buona parte prenderà spunto, chiarisce che quest’episodio costituisce “la magior vergogna che ebbe mai li forlivesi”. E riporta, nell’idioma quattrocentesco, le male parole di Guido da Montefeltro contro i forlivesi del 1283, dando loro degli “insensati e inpagoriti” (cioè, stupidi e pavidi). Parole memorabili che talvolta paiono attuali, proprie di chi ha amato tanto questa città ma ne è rimasto tradito. “Perché non m’aspectaste?”, infatti, Guido era lì lì per sistemare tutto, avrebbe “presa provisione a ongni cosa”. “Hor questa è la vostra destructione ché serite tractati como meritate”. E non finisce qui: “Ov’è la soperbia vostra, la magnanimità? Ov’è el senno e sapere? Ov’è il vostro bon consiglio che conquistaste tocta Romagna? O vile, o codardi, e che avite facto la vostra morte? Non avite possuto aspectare fina a domatina! O miseri voi! Hor sia con Dio, l’è facto. Como farite ché erave signori e mo’ serite vasalle e serite mostri a dito”. In giro si dirà: “Quisti son li vile codardi forlovesi” che s’arresero “per aver perduta una sola bastia”. Rimproverò con altre parole da innamorato ferito la “paora e codardeza” dei forlivesi. Fino a uscire di scena con: “Via, a diavolo! Andate a li forche. Voi vederite como serite tractati”. 

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