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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Viaggio nella "Forlì cattiva"

Spettacoli indegni, teppismo, aggressioni. Scampoli di cronaca scabrosa tra il 1913 e il 1914. La guerra era dietro l'angolo e Forlì dimostra forte inquietudine. Si stava meglio quando si stava peggio?

Forlì città tranquilla. Sì ma... Sfogliando le pagine ormai consumate dei quotidiani locali di tempo fa, spicca qualche episodio che, con l'occhio distaccato di oggi, può sembrare curioso. Occorre calarsi tra il 1913 e il 1914 per annoverare solo qualche esempio. Sarebbero episodi da ampliare in sceneggiature anche per i toni con cui sono raccontati. Il quotidiano di riferimento è Il Pensiero Romagnolo, di estrazione repubblicana, non esente anch'esso, a quel tempo, da accenti di pancia. Ecco, dunque, una rassegna stampa dedicata alla Forlì cattiva, per così dire, a piccoli inquietanti episodi che non facevano dormire sonni tranquilli ai nostri antenati. Nell'agosto del 1913, “uno spettacolo non bello, non consono all’indole di questa generosa popolazione romagnola viene offerto ogni sera in piazza Dante Alighieri”. Che succede? “Una povera vecchia scema che guadagna il suo scarsissimo pane vendendo un po’ d’erba falciata, è il ludibrio di tutti, uomini, donne, vecchi e fanciulli fanno a gara per ischernirla”. Non solo: “anche un impiegato di questura e un vigile urbano” sono stati visti “assistere, ridendo e approvando all’indegno spettacolo”. Nel medesimo periodo si fa notare, in punta di penna, che nel Civico giardino, pur essendo “il più vasto e il più ricco di piante della regione”, “vi si scorge un’oscurità tale che vi dà una visione di un cimitero”. E così si notano “sedili devastati dal teppismo locale”. Infatti: “Nel percorso del lungo prato, fiancheggiato da giganti e superbi platani secolari, il buio è tale da doversi sentire aggrediti e schiaffeggiati senza conoscere l’aggressore”. 

Passata l'estate, spunta un altro fatto controverso. A scrivere è tal Gioacchino Dogheria che racconta, tramite una lettera al giornale, di “prepotenze poliziesche” contro di lui. Infatti: “Venerdì sera 13 settembre alle 8 e mezzo, mentre ero per via Mattioli dove abito e stavo per rincasare, fui aggredito da una squadra di sbirri e carabinieri i quali mi presero all’improvviso e mi calpestarono di pugni e cazzotti. Erano più di venti”. Silenzio assoluto sulle cause e su eventuali avventure pregresse del Dogheria che poi si lascia andare ad aspri commenti: “Perché questi valorosi non li mandano in Libia? Là avrebbero campo di sfogare tutta la loro bile, potrebbero anche prendere qualche pillola indigesta nello stomaco e così potrebbero testimoniare, colle loro gloriose carogne putrefatte al sole, il loro valor militare”. Insomma, auspicando “eroi di più in Africa e iene di meno in Italia” pare che il clima di allora fosse piuttosto invelenito. E il settimanale repubblicano come risponde a tale lettera? Con queste parole che, ben lungi dallo smorzare i toni, evidenziano l’identità anticlericale della rivista forlivese: “Ci associamo deplorando che i tempi del Papa re non siano tanto lontani come si crede”.

Nel novembre 1913 si riferisce di sgradevoli abitudini lungo una centralissima strada forlivese: “Malgrado l'antico storico nome delle Celendole e quello, imposto poi, del concittadino Giacomo Allegretti il pubblico non vuol dimenticare l'intermedia denominazione di via delle Stallacce, di tradizionale e non odorosa memoria”. La dotta disquisizione toponomastica entra nel vivo proprio ora, con chiaro riferimento alle stallacce, infatti il lettore denuncia “la pubblica latrina ivi funzionante, invadente tutto il vicolo ristretto”. La prosa che segue è vivace, piccata, sanguigna, in quanto denuncia “antichi usi ed abusi” perché “serve oggi ancora, oltreché a serali non legittimi accoppiamenti, a deposito di ripetuti appestati mucchietti”. Insomma, la latrina di via Allegretti cent'anni fa era un bel problema a due passi da piazza Saffi e a pochi metri da San Mercuriale. E per fortuna di essa non c'è più traccia. L'appello sul giornale, quindi, mira a cancellare questo spettacolo “vergognoso” rivolgendosi specialmente agli “amanti del decoro di Forlì”, infine “auspicando un allargamento della strada”. 

Per rendere l'idea di un clima vicino al brigantaggio, ecco cosa si vive nel febbraio del 1914: “Da qualche tempo a questa parte si segnalano con frequenza assalti notturni a viandanti per le vie della città con relativa estorsione di denaro. Oramai non v'ha notte in cui qualche pacifico cittadino non sia assalito da tristi figuri i quali con minacce a mano armata chiedono la più o meno voluminosa borsa”. Da qui sorge la solita domanda, seguita da un monito sarcastico: “La polizia che fa? Non ci sono solo i sovversivi da sorvegliare, ci sono anche i signori ladri! I quali sono oramai così audaci e così sicuri del fatto loro da farci sospettare che debbano avere molta deferenza per le attuali istituzioni dominanti!”. Basta? No. Negli stessi giorni ecco che un fatto di sangue sconvolge la città. Pertanto si scopre che “lunedì sera, il giovanetto Giuffrida Valmaggi, per ragioni d'interesse, uccideva con un terribile colpo di pugnale il suo coetaneo e amico Ottavio Bovelacci”. La stampa sorvola sull'approfondimento delle vaghe “ragioni d'interesse” che condussero all'assassinio. Mistero anche sull'età dei “giovanetti” e su altre informazioni sulle quali si sarebbero potute condire ben più battute. Cosa portò dunque, in modo tragico, alla fine dell'amicizia tra Giuffrida e Ottavio resta un segreto. Vero è che “l'omicida Valmaggi si dava subito alla latitanza ma il giorno dopo veniva arrestato a Chiaravalle Marche e tradotto a Forlì ove confessava pienamente il delitto”. Mentre si aprivano le porte delle regie prigioni per il reo Giuffrida, “giovedì ebbero luogo i funerali del povero assassinato che riuscirono imponenti”. Così conclude: “Il delitto ha fatto in città profonda impressione”. Insomma, questa è solo una collana di esempi riguardante pochi mesi, tra l'estate del 1913 e l'inverno del 1914; dai toni e dall'entità degli episodi sembra che la Forlì a un soffio dalla Grande guerra non avesse perso quella turbolenza risorgimentale che a sua volta cagionò fatti simili. 

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