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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

I maestri: Carlo Ravaioli, il pittore che frequentò il buio e imparò a restituire luce

Carlo Ravaioli è artista apprezzato a diverse latitudini, antico ragazzo che può vivere del proprio talento, benvoluto anche per l’assoluta mancanza di spocchia pseudo artistica

Carlo Ravaioli è artista apprezzato a diverse latitudini, antico ragazzo che può vivere del proprio talento, benvoluto anche per l’assoluta mancanza di spocchia pseudo artistica. E’ uomo sorridente, auto ironico. Per me è l’amico con cui condivisi terza, quarta e quinta liceo, per lunghi periodi nello stesso banco. A me, e ai nostri ventidue compagni di classe, Carlo non lo può raccontare nessuno. Lo frequentammo ogni giorno in epoche in cui molti non avevano ancora il telefono in casa: era il dialogo incessante, invasivo e chiarificatore, a tessere la trama delle adolescenze. Tutti gli volevamo bene, impossibile il contrario: figlio d’un mezzadro di Coccolia, cresciuto nella campagna rigogliosa ove ci invitava il pomeriggio, Carlo, da quell’ultimo banco che condividevamo, osservava le brave e belle compagne e gli irrequieti amici con rispetto e curiosità. Da lui mai un commento sarcastico, solo battute che contribuivano al clima solidale di una classe che avrebbe sfornato un esuberante pacchetto di medici, ingegneri, chimici, manager,  insegnanti e musicisti.

E, per l’appunto, un artista. Una classe senza invidie, come usava allora, senza genitori a far da contro canto agli insegnanti e a stilare classifiche, con i migliori al servizio degli altri (io ero tra gli altri) in un clima di attesa della prova più grande, quella della gioventù che, di lì a poco, ad aula svuotata, avrebbe affrontato il mare senza sponde della vita da costruire. Lo scoprivo intento a tracciare schizzi di volti e movimenti che declassavo a passatempi e che, invece, annunciavano un talento senza parenti. Poi, in quarta, soprattutto in quinta, arrivò il dolore fisico. Solo chi, come noi, ha visto Carlo aggredito da quelle emicranie può dire chi effettivamente sia. Un mal di testa continuo, martellante, che gli toglieva energia e prospettiva, che lo ingobbiva e lo costringeva al buio e al silenzio. Con le guance appoggiate al banco, le mani strette alle tempie, le lunghe defezioni. Un incubo lungo cinque anni. Impossibile da immaginare per chi, parecchi decenni dopo, vede Carlo esibirsi in sport acquatici, ne osserva il fisico  scattante, ne ascolta l’eloquio appagato. Per questa conversazione l’ho incontrato nella sua casa - atelier a Cervia e all’oratorio di San Sebastiano a Forlì, ove è in corso la sua magnifica personale, aperta fino al quattro di maggio. Tra gente che ammira le sue opere, lo interroga, lo elogia senza che lui s’adagi a prendersi sul serio. E’ un contadino, non ha mai dismesso l’antico, salvifico, pudore. 


Carlo, partiamo da quel mal di testa.
Cominciò in Piazza Venti Settembre a Forlì, ero con due nostri compagni, in un pomeriggio rilassato. Fu talmente acuto che mi venne la nausea, dovetti afflosciarmi su una panchina. Mi aggredì a fasi alterne per cinque anni, non sapevo se ne sarei uscito. Forse concorreva una qualche sofferenza ambientale, nonostante le cure, le visite, i consulti medici. Per due anni consecutivi trascorsi un mese intero in una clinica specializzata a Borgo San Lorenzo, ai tempi del “mostro di Firenze”, forse si scoprirà che ero io. Un dolore invalidante, mi mancavano le forze. Poi, a venti tre anni, se ne andò com’era venuto. Ma molto era successo: dopo il Liceo m’ero iscritto ad Architettura, non mi fu possibile seguire le lezioni, studiare. Abbandonai.

Gli amici che venivano a trovarti erano pessimisti.
Come vedi, l’erba cattiva non muore. A parte gli scherzi, allora disperavo di potere avere una esistenza normale. La mia vita, di fatto, è cominciata a venti tre anni. Ma da tutto s’impara. Forse quel che son riuscito a fare deriva anche da quegli anni complicati.

Da ragazzo sognavi di fare l’artista?
Ero figlio unico. Osservavo molto, disegnavo bene. Mio padre era un contadino cattolico, votava Democrazia Cristiana. Mia mamma era figlia di possidenti andati in rovina, per nostalgia votava monarchico e aveva passione per l’arte. Coccolò la mia propensione. Dopo le medie intendevo frequentare l’Istituto d’arte ma il nostro compagno Cesare Mazzoni, medico che opera sugli elicotteri di soccorso, mio amico a Coccolia fin dalla prima elementare, s’iscrisse al Liceo scientifico di Forlì. Lo seguì. 

Diamo a Cesare quel che è di Cesare. A proposito di compagni: molti hanno intrapreso mestieri istituzionalizzati. Se eri bravo, ai tempi, ti s’apriva un futuro. Ti sei mai sentito meno “solido”?
No. Fossi diventato architetto, probabilmente avrei seguito quella strada. Mio babbo mi sognava in comune a Ravenna a occuparmi d’urbanistica, con  il posto fisso. Ma io volevo esprimermi in qualcosa di mio. Quando diventai grafico pubblicitario, attività allora semi sconosciuta, si chiedeva se fosse un mestiere. 

Campagna, silenzio, introspezione, hanno inciso?
Fino a venti tre anni stavo ore e ore nella mia stanzetta a pensare e a disegnare.  Ero timido, faticavo a trovare una ragazza, avrei voluto una fidanzata. Sentivo un gran bisogno di coccole. Poi, per guadagnare qualcosa, senza intenzioni glamour, mi ritrovai a fare il barman in discoteca a Cervia: mi sbloccai, presi coraggio. Da molti anni ho, come tu sottolinei, una moglie molto più bella di me che è l’asse portante della mia vita.

Sei un tizio di terra trasferito al mare. Caso o scelta?
Quando soffrivo di emicrania non potevo avvicinarmi al mare, l’idea del vento mi terrorizzava. Poi, a cinquanta tre anni, ho scoperto il kite surf, non ho più smesso di praticarlo. Mi sono innamorato del vento e del mare, pensa come sterza la vita. A Cervia, poi, arriva tanta gente, mi fa comodo abitarci. Sto in studio praticamente sempre, lì dentro non mi manca niente.

Torniamo al tuo percorso. La grafica pubblicitaria.
A fine anni settanta a Ravenna ero in studio con due designatori edili, venivo dal disegno anatomico ma lo spazio per quella attività non c’era più, sostituita dalla fotografia. Con i miei soci realizzammo manifesti d’epoca disegnati a mano, ricordi che tornò di moda lo stile liberty? Uno dice: apriamo uno studio grafico? Mi ci butto, realizziamo, tra gli altri, il logo del dancing Kursaal di Cervia, del giornale della squadra di basket di Forlì. Imparo il mestiere del grafico pubblicitario, a Forlì eravamo in tre a praticarlo.

Poi vennero i fumetti
Fu nel 1983 ma ci pensavo dai tempi del Liceo a disegnare storie. Ero in contatto con Isola Trovata, casa editrice bolognese del settore. Facevo sia i disegni che i testi. Mi fece il primo articolo d’incoraggiamento Enrico Zavalloni sul Carlino. Ma il mercato di lì a poco svoltò sui fumetti erotici. Pubblicai una storia piccante, ma non mi sentivo a mio agio. Lì si chiuse la mia carriera.

Siamo alla fotografia.
Anche quella storia viene dal Liceo. Il Comune di Forlì aprì un concorso di idee per la realizzazione del Parco Urbano. Due nostri insegnanti, la scienziata Gisella Pasqui e il prof d’arte Sergio Selli, organizzano un gruppo composto da me e dai nostri compagni Claudio Assirelli e Stefano Vittori. Io mi occupo delle immagini. Ci aggiudichiamo il secondo premio, mi arrivano ben 125.000 lire. Li investii nella mia prima Reflex, una  macchina fotografica. Più avanti ho realizzato mostre, frequentato cine club, ma neppure quella diventò la mia strada.

Annoto che Cesare non fece poi così male, traghettandoti al Liceo. E che la tua storia, fatta di ricerca e tentativi, andrebbe spiegate nelle scuole, ove oggi per i ragazzi “del doman non v’è certezza”. E arriviamo, finalmente, alla pittura.
Lavoravo per la Fotozinco, azienda forlivese. Una delle proprietarie mi spinse ad  impegnarmi seriamente. Realizzai il disegno della erigenda Chiesa di San Paolo. Vinsi il premio Zaccagnini a Ravenna. Lavorai per  una mostra su dodici muse, ne predisposi undici, alla dodicesima andai in crisi e mollai. Però cominciai ad approfondire la vocazione: lavorare sulla figura umana, stilizzando le immagini. Venticinque anni fa feci la prima mostra, i commentatori mi associarono a Modigliani e la cosa mi innervosì. Cambiai registro. 

Ti innervosiva il parallelo con Modigliani? Sei normale?
Probabilmente no. Ma le mie non erano imitazioni, cercavo una strada.Per me rappresentare persone, i loro sentimenti e stati d’animo, è cosa seria. Ci metto tutto me stesso, non scimmiotto nessuno, anche se mi servo talvolta di colli allungati.

Un quadro racconta quel che pensi tu o la percezione di chi lo guarda?
In lavori come quelli di questa mostra a Forlì, incentrato sulle declinazioni dell’idea di citta, parto da quel che penso  e mi rendo conto che si tratta di ossessioni infantili che riemergono, trasformate in suggestioni. Quando faccio ritratti, lavoro, invece, sullo sguardo del pubblico, cercando d’inconrarlo utilizzando la scienza dei segni, la semiotica insegnata da Umberto Eco, del quale seguivo le lezioni al Dams a Bologna. Sono appassionato di semiotica, credo di averla studiata in modo approfondito.

A dieci metri da qui c’è il Museo San Domenico, ove la Fondazione Cassa dei Risparmi allestisce mostre meravigliose. Attualmente è aperta “L’arte della moda”, con dipinti dei più grandi di sempre. Dai grandi si copia?
Sono inevitabili le influenze, specialmente se non sei stato a bottega. Ti viene naturale scegliere modelli.  A me piacevano Modigliani, Carrà, Casorati. Poi ci sono le tendenze culturali e quelle della critica. Quando cominciai la pittura astratta era molto più apprezzata rispetto a quella figurativa. La prima era considerata di sinistra, rompeva gli schemi. Ma io vengo dall’artigianato, dalla ricerca della forma.

George Simenon sosteneva che la scrittura è uno per cento ispirazione e novantanove per cento traspirazione, cioè fatica. Vale anche per la  pittura?
Per me si. A un certo punto nacque, ed ebbe successo, la corrente pittorica concettuale: espressione artistica, a mio giudizio,  più di parola che di figura. Ma io vengo dalla fatica, dalla illustrazione. A mio giudizio la poesia è pittura astratta, la prosa, con la sua complessità di scrittura, è pittura figurativa.

Ok. Quanto conta il disegno e quanto il messaggio?
Nasco e rimango illustratore. Nella settimana enigmistica, da piccolo, guardavo solo le barzellette senza parole, mi parevano più efficaci. L’illustrazione descrive quel che il racconto non riesce a raggiungere, pensa ai libri per ragazzi, densi di tavole e figure. Diciamola tutta: per illustrare serve abilità e precisione.

Arriviamo a questa mostra, a questi quadri ipnotici. Spiegali a uno zotico come me.
Nel 2012 l’Università di Milano mi chiama per tenere un seminario a Tokio sul tema della smart city. Comincio a dipingere città immaginarie, di pianura, di collina. La città volante, bonsay, fantasma, futura. Nel 2016 mi contatta l’università “La Sapienza” di Roma per tenere una lezione di urbanistica, nella quale racconto la evoluzione delle mie città. Ne nacque una pubblicazione monografica. Di lì è partita questa mostra.  

Perchè questi quadri mi trasmettono un senso di compiutezza?
Considera i tempi di permanenza media su una qualsiasi immagine in questa epoca, siamo quasi a livello di percezione sub liminale. Pensa a instagram, etc. Immagine registrate più dall’inconscio che dagli occhi, dicono i pubblicitari. L’attenzione si cattura nel primo attimo, come sa chi scrive o chi suona. Ma non è il mio registro.

E hai fatto il contrario, mi par di capire. 
Si, tutti siamo abituati alla massima velocità. I miei quadri, invece, hanno bisogno di tempi lunghi, per assorbirli devi esservi rimasto di fronte almeno per qualche secondo. Riguarda questa mostra e l’intera mia produzione. Che è figurativa, come ti dicevo, non una macchia tra mille.

Se uno porta a casa un Ravaioli cosa lascia ai figli?
Dipende dai figli,  da come sono abituarti a rapportarsi con le immagini. Oggi  molti sono soliti guardare per una frazione di secondo e a passare oltre, con i miei quadri gli offriamo stimolo per un approfondimento. 

Ringrazio Carlo Ravaioli. Buona domenica, alla prossima.
 

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