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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Balere, dancing, discoteche: luoghi del cuore che hanno attraversato la Romagna

Quei locali avevano elementi in comune. Vissero le proprie stagioni migliori tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, quelli di rapidissima e  apparentemente inarrestabile evoluzione economica della Romagna e di intenso ottimismo

Questa domenica comincio il pezzo con un colpo basso, proponendo un elenco che farà venire uno stranguglione nostalgico a tanti. La Baia degli angeli a Gabicce, il Bul Bul a Castrocaro, il Pascià a Riccione, il Club 99 a Pinarella, l’Aleph ancora a  Gabicce, la Bussola a Fratta, il Paradiso a Covignano, lo Snoopy a Faenza,  il Byblos a Misano,  l’Altromondo a Miramare, lo Xenos a Marina di Ravenna, la Mecca sulla collina riminese, la Porta d’Oro a Bertinoro, la Villa delle Rose a Misano, le Cupole a Castel Bolognese, il Pineta a Milano Marittima, il Geo Club a San Mauro, il Vallechiara e il Savioli a Riccione, il Woodpeker a Milano Marittima, il Baccara a Lugo, il Bandiera Gialla e l’Oriental club a Rimini, il Ciaika a San Martino in Strada, la Nuit a Cesenatico. E chi più ne ha ne metta, a me, sul momento, sono venuti in mente questi. 

Un elenco incompleto e disomogeneo, lo so: mescola disordinatamente stili, organizzazioni, atmosfere, modi d’essere e di vivere, qualità architettoniche, proposte musicali, classi sociali. E’ difficile inserire nella stessa categoria, ad esempio, l’allegria bonaria del Ciajka, riferimento di ceti popolari  limitrofi, con la spettacolare proposta del Paradiso, che annoverava tra gli abituè  persone di visibilità nazionale, o con l’atmosfera irriverente dell’Aleph, prediletta da quella che oggi verrebbe definita comunità fluida. Tuttavia, quei locali avevano elementi in comune. Vissero le proprie stagioni migliori tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, quelli di rapidissima e  apparentemente inarrestabile evoluzione economica della Romagna e di intenso ottimismo. Inoltre, consentirono ad un paio di generazioni di vivere di corsa, tutto d’un fiato, il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Con i tempi della gioventù scanditi dalla felicità di riconoscersi, di mischiarsi con i propri simili, di ergersi a protagonisti, anche solo per un attimo. In quei locali andava, più volte a settimana, in scena una recita dalla quale nessuno era escluso. La si attendeva, ci si preparava al meglio: all’uscita c’era talvolta stanchezza ma mai malinconia, l’adrenalina galoppava e, risalendo in auto o sulle diligenze allestite dai locali, il pensiero correva alla nuova partita che ciascuno avrebbe potuto giocare di lì a qualche giorno per aprirsi un po’ di spazio nel mondo.

All’inizio furono le balere, termine che prese a circolare nel secondo dopoguerra. Di lì a poco comparve la dizione dancing, utilizzata soprattutto, ma non solo, nel caso di luoghi all’aperto. Da subito si fece grande musica dal vivo, di generi diversi. Da quella americana, conosciuta nel Paese grazie alle truppe alleate e immediatamente popolarissima, a quella romagnola, sostenuta con vigore e coerenza da Secondo Casadei, a quella della tradizione italiana. Fino alla rivoluzione del rock e alla miscellanea virtuosa tra successi internazionali e talentuosi esecutori locali. Balere e dancing dettero infatti opportunità e lavoro a formidabili musicisti che, come gran parte del pubblico, avevano origini popolari, contadine e operaie. 

Negli anni Sessanta cominciò un’altra epoca, favorita dalla diffusione di un benessere sconosciuto alle generazioni precedenti e dalla circolazione su gomma. Implodevano barriere sociali e limiti geografici; i locali crebbero nel numero, diversificarono le proposte, arricchirono i palinsesti, fino a diventare marchio distintivo della Romagna. Nel decennio successivo nacque il termine “divertimentificio”, coniato da uno scrittore scomparso prematuramente, Vittorio Tondelli, riferito alla meravigliosa capacità della Romagna di creare occasioni d’incontro come nessun altro nel Paese sapeva fare. E se battaglioni di turisti erano abbacinati dall’ipnotico sfolgorio delle discoteche- cattedrali allocate in riviera, nell’entroterra si ballava, suonava, ci si amava a ritmo altrettanto intenso.

A quel punto l’idea di discoteca aveva preso il sopravvento, non fu svolta indolore. I gusti del pubblico stavano cambiando, per di più pagare un disk jokey risultava più vantaggioso che pagare un’intera orchestra. Ma non era solo questione di soldi, non si trattava esclusivamente della economia che scaccia la poesia, per utilizzare una facile rima. La verità è che i giovani cominciarono ad appassionarsi a riproduzioni musicali sempre più asettiche e perfette. Non era possibile, alle orchestre che esibivano dal vivo, competere su quel terreno: quando, qualche anno fa, scrissi un libricino sulla Romagna ai tempi d’oro della Bussola di Fratta, me lo spiegarono musicisti che a lungo avevano calcato quelle scene. All’inizio convissero con i disk jokey, i quali man mano divennero autentici personaggi, artefici di spettacoli sempre più complessi; poi, progressivamente, cantanti ed orchestrali, lasciarono il passo.

Fu, quello delle discoteche, fenomeno sociale potente e, come tale, inevitabilmente non privo di qualche contraddizione. Una rappresentata dalla sicurezza dei tragitti che riportavano a casa i ragazzi dopo ore di divertimento. Qualcuno parlò di sballo ma non mi accodo: se erano, erano comportamenti numericamente limitati. I ragazzi che frequentarono le disco romagnole negli anni ottanta e novanta non erano persi, costituiscono oggi l’asse portante della nostra società. Però il viaggio di ritorno risultava, per sonno accumulato, carenza delle strade e velocità di crociera, effettivamente pericoloso. E dalla Romagna, da Forlì, s’alzò la voce della riflessione, quella della mamma anti rock, così definita dalla folgorante sintesi di un giornalista del Carlino. Era Maria Belli, tradizione comunista, assessore municipale. Non cercava pubblicità: l’ho conosciuta, era donna sincera e riservata. Aveva tre figli in età da disco, era preoccupata e si chiedeva perché nessuno mettesse mano alla faccenda. Che non era frutto della sua immaginazione: la tremenda statistica delle stragi del sabato sera era nata qualche anno prima. Il movimento d’opinione sollecitato da Maria Belli raggiunse Paese e Parlamento. Regole, comportamenti, percezioni, cambiarono. Il rischio non fu annullato ma la questione, da allora, non è sottovalutata.

Balere, dancing, discoteche rappresentarono una briscola per la nostra terra. Mossero caterve di denaro; se interamente fiscalizzato non saprei ma comunque distribuito a un vasto numero di persone che ne avevano necessità. Nacquero e prosperarono mestieri, dalla star sul palco e alla consolle, al parcheggiatore. Passando per manager, guardarobiere, autisti delle diligenze, buttafuori, addetti alle pulizie, parrucchieri, negozianti d’abbigliamento e accessori, profumieri etc. Buona parte del pil romagnolo lo generarono senz’altro, per decenni, quei locali. Nei quali si produsse anche una quantità industriale di erotismo, inno alla vita: veniva acceso da un gesto o da un sorriso all’interno del locale, luogo di seduzione come mai altri, e deflagrava all’esterno: in auto, negli anfratti, nelle pensioncine, negli appartamenti complici. E pure nelle case tradizionalmente intese, quelle delle coppie già stabili. In quei locali frequentemente ci si innamorava, ma spesso ci si andava per innamorarsi di più.

Quei locali produssero tonnellate d’amore e di bene. Avete presente la scena finale del film degli anni Ottanta “Ghostbusters”, in cui al male si oppone con successo l’enorme nuvola d’amore diffusa nel cielo della città? Ecco, è quella che dovete immaginare alzarsi nei dintorni dei locali romagnoli e tutt’ora, a decenni di distanza, sospesa su innumerevoli case. Quando scrissi il libricino sulla Bussola chiesi testimonianze: me ne giunsero centinaia da parte di famiglie che s’erano create una sera in quel locale, grazie a uno sguardo, una battuta, una carezza, e che erano, a tanti anni di distanza, solide come querce. Arricchite da figli e nipoti, temperate alla tempesta da mutui contratti per mettere su casa, benedette dalla consuetudine di condividere ansie e speranze. Ci fu chi mi confidò il grande desiderio: tornare per un attimo nel luogo ove tutto era cominciato, tra la pista da ballo e l’american bar. Mi resi conto della vastità del fenomeno nel quale mi ero imbattuto quasi casualmente. Anzi, vi propongo una iniziativa: se vi siete innamorati in una discoteca romagnola e poi avete fatto coppia fissa, o è successo i vostri genitori, scrivetemi utilizzando il mio profilo facebook o all’indirizzo mail: russomannomario54@gmail.com. Vi contatterò e, se mi autorizzerete, proporrò in qualche occasione le vostre storie in questa rubrica domenicale.  Accenderemo assieme i riflettori su storie di Romagna che non vanno dimenticate e che forse risulterà divertente leggere.

Per chiudere, vi racconto di una sera in un ristorante di Milano Marittima, nella estate del 2007. Ero in compagnia di Valerio Massimo Manfredi,  magistrale scrittore di romanzi storici, tra i più letti al mondo. L’avevo intervistato a Salotto blu, presentavamo a Cervia il suo libro “L’ultima legione”. Magnifico divulgatore, archeologo e regista, Manfredi è uomo modesto e simpatico. Mi raccontò la sua adolescenza, vissuta a Piumazzo, nel modenese: “abitavo poco lontano dalla discoteca Kiwi, ero di famiglia contadina e timido. Ma mi incuriosiva quel luogo, pensavo che in posti come quelli succedessero sempre tante cose”. Manfredi, che avrebbe immaginato eventi memorabili, scatenando la curiosità di milioni di persone, da ragazzo pensava che dentro locali come il Kiwi, del tutto simile a quelli romagnoli, succedessero le cose. 

Era quella la forza, il traino irresistibile, di quei locali. Ti preparavi lungamente per andarci, emozionata/o, perché speravi che qualcosa di diverso dalla vita di tutti i giorni, tra quelle scatole di cemento, tra quelle architetture fantasmagoriche, sarebbe successo. Per poi, non raramente, constatare che la tua vita, era davvero cambiata. E che, comunque, là dentro qualcosa di utile ad affrontarla l’avevi imparato.    
Buona domenica, alla prossima.       

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