rotate-mobile
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

La giornalista Elide Giordani: "Social network, per l'informazione una rivoluzione pari all'invenzione della stampa"

"Prendiamo Facebook: inizialmente pensavamo che partecipare fosse un gioco. Poi ci siamo accorti che la gente ha come strumento d’informazione principale Facebook"

Elide è eccellente giornalista e persona deliziosa, lascia di sé garbato ricordo in ogni ambiente: ha lavorato anche a VideoRegione e, quando viene a “Salotto blu”, le persone che l’hanno frequentata la coccolano. Non è figlia d’arte: suo padre faceva il minatore a Savignano di Rigo, dieci chilometri oltre Sogliano, nel cuore di quella Romagna di collina che offriva lavoro nelle locali miniere di zolfo. Quando la vena si esaurì la famiglia si trasferì per sette anni in Sardegna, ove c’era ancora bisogno di minatori. Appena laureata, a Elide capitò di collaborare a “Radio Cesena Adriatica”. S’innamorò del mestiere: lavorò per il quotidiano “La notte”, per “La Gazzetta”, per la “Voce”, divenne professionista all’interno della redazione del “Giornale” diretto da Indro Montanelli. Poi venne, per lei, la stagione delle televisioni: “TeleRomagna”, la direzione giornalistica di “Nuova Rete” e di “San Marino Tv”.

E di nuovo la parola scritta, con l’impegno nelle redazioni romagnole del “Carlino”. Fino a qualche mese fa Elide è stata portavoce dell’Ordine nazionale dei giornalisti, adesso è Segretario dell’Ordine in Emilia-Romagna. Tra i mille argomenti che con lei si possono affrontare, scelgo quello della deontologia professionale, materia della quale è docente in numerose occasioni formative rivolte ai colleghi.

Incrociando le dita, pare che Il Covid si vada trasformando in qualcosa di meno angosciante. La faccenda l’abbiamo sempre raccontata giusta?
"Certo che l’abbiamo raccontata giusta. Avremmo dovuto far finta di niente, minimizzare? La pandemia è stata una delle peggiori emergenze che l’umanità abbia affrontato. Ne stiamo uscendo grazie ai vaccini, all’ impegno dei sanitari, delle organizzazioni del volontariato. E alla presa di coscienza collettiva, alla quale hanno contribuito un po' anche i giornalisti".

Niente eccessi?
"Forse certi palinsesti sono stati monocordi, qualche personaggio ne ha approfittato per cercare visibilità. Ma questo riguarda l’organizzazione delle trasmissioni non il dovere dei giornalisti di informare su quel che andava succedendo e sui rischi che si correvano.  Chi non si riconosce in quello che viene definito pensiero dominante ha avuto spazio, chi non era interessato alla questione Covid ha potuto fare altro. Non è vero che l’informazione sia stata imbavagliata o complice di chi sa quale complotto".

Il tema si ripropone in riferimento alla guerra in corso.
"Mi pare che il racconto che se ne sta facendo sia articolato, aperto a visuali diverse. Ti ripropongo il quesito: dovremmo non raccontarla, la guerra? Limitarci a definirla operazione militare speciale, come la chiama Putin? Ovviamente non ci sono solo torti o ragioni ma i colleghi sul campo fanno il proprio mestiere con onestà. Esistono anche opinioni diverse, sono riportate dai giornali e dalle tv. Almeno fino ad oggi, nel momento in cui tu ed io stiamo conversando, mi pare che le cose stiano andando così".

Hai notato che sui fronti più caldi della guerra ci sono giornalisti free lance? 
"Intanto sottolineerei che è grazie al lavoro, anche coraggioso, di chi è sul campo che possiamo renderci conto di ciò che sta succedendo. Qualche collega, in Ucraina, in queste settimane è stato ucciso per aver cercato di informare, non dimentichiamolo. Poi, esistono vocazioni specifiche di colleghi che sanno e vogliono fare quello. Infine, c’è il tema, estremamente serio, dell’impoverimento delle redazioni. Sappiamo come stanno le cose: la figura dell’inviato, per ragioni di risparmio di costi, non è più troppo diffusa. Dovremmo affrontare la questione della dignità e del futuro del giornalismo ma oggi abbiamo detto che parliamo di deontologia".

A proposito, s’è molto discusso della immagine della bambina ucraina con in bocca il lecca-lecca e in mano il fucile.
"Una immagine che, pare, sia stata costruita e, dunque, non spontanea. Rimane il fatto che diversi conflitti sono entrati nell’immaginario collettivo anche attraverso immagini iconiche che, successivamente, si sono rivelate costruite. Difficile, per una redazione, rendersene conto sul momento. Del resto, oggi per fare informazione basta un cellulare. Il che apre un gran numero di questioni".

Uno dei temi che affronti negli incontri formativi è il rapporto tra giornalismo e social media.
"Siamo di fronte a una rivoluzione della comunicazione paragonabile alla invenzione della stampa, avvenuta alla fine del millequattrocento. Prendiamo Facebook: inizialmente pensavamo che partecipare fosse un gioco. Poi ci siamo accorti che la gente ha come strumento d’informazione principale Facebook. Inizialmente il dialogo era tra una persona e l’altra, adesso è tra una persona e tante altre. La differenza dal giornalismo sta nel fatto che noi, per preparazione specifica e regole deontologiche, conosciamo il peso della informazione che diamo. Mentre talvolta le persone non hanno precisa cognizione del fatto che, con un post, stanno dando notizie, o presunte tali. Rimane che i social media costituiscono fenomeno di cui tenere conto".

La deontologia è centrale nella formazione offerta dall’Ordine.
"È una crescente responsabilità rivolgersi al pubblico. Occorre farlo nel modo giusto. Soprattutto quando si parla di bambini, di soggetti deboli. Su questi temi l’ordine ha sottoscritto protocolli e trasmette regole. Nel momento in cui si fa cronaca occorre avere cautela. Le redazioni stanno facendo bene, senza distinzione tra carta stampata, on line o altre forme di giornalismo. Anche rinunciando a un titolo, a una descrizione, che farebbe vendere qualche copia in più. Attenzione: non deve mancare la notizia ma si devono rispettare persone che, a vario titolo, sono coinvolte in una determinata vicenda".

Ho notato l’equilibrio con cui i giornali hanno seguito i terrificanti femminicidi avvenuti recentemente a Ravenna e a Faenza.
"Episodi mostruosi, trattati dai colleghi con passione, competenza e professionalità. C’erano minori e persone innocenti all’interno di quelle famiglie, vittime anch’esse di disegni criminali. Andavano tutelate riservatezza e dignità. Il lavoro dei colleghi ha costituito esempio di giornalismo consapevole. In Romagna, del resto, la tradizione giornalistica è consolidata: mi sento di dire che la qualità e il garbo con cui la Romagna è raccontata costituiscono un punto di forza della nostra terra".

Violenza sulle donne. Te ne sei a lungo occupata ma, anche dalle nostre parti, non pare che le cose migliorino, anzi.
"I numeri sono terribili, non è questione romagnola ma globale, figlia di una cultura maschile aggressiva, incapace di accettare il distacco. Che non riguarda il livello di istruzione degli uomini ma la loro mentalità. Ho anche fatto parte di associazioni che lavorano a questo problema ma mi vado scoraggiando. La violenza sulle donne un tempo era data quasi per accettata mentre oggi è giustamente oggetto di riprovazione sociale. Eppure, i numeri non scendono. In questo, ammettiamolo, la Romagna non fa eccezione".

Non dirmi che ci si deve arrendere.
"Certamente no, ma credo la battaglia vada combattuta sui banchi di scuola, fin dalle elementari. E dentro le famiglie, fin dall’infanzia. Attraverso strumenti nuovi. Saranno le nuove generazioni, quelle dei bambini di oggi, a cambiare le cose. Almeno lo spero".

Si parla di

La giornalista Elide Giordani: "Social network, per l'informazione una rivoluzione pari all'invenzione della stampa"

ForlìToday è in caricamento