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La domenica del villaggio

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A cura di Mario Russomanno

Amo la Romagna, cosa ci posso fare?

La domenica del villaggio

Il flautista che suona nelle sale più prestigiose del mondo: "Da tempo mancano talenti, rischiamo di suonare al passato"

Massimo Mercelli a diciannove anni divenne professore al Conservatorio e, contemporaneamente, venne nominato Primo flauto al Teatro “La Fenice” di Venezia

Massimo Mercelli. I più grandi sono anche i più alla mano, sempre educati e disponibili. Qualche anno fa un sindaco mi chiese la cortesia di metterlo in contatto con Massimo Mercelli. Chiamai Massimo, che è solito rivolgersi a chiunque con l’educazione che suo padre, carpentiere, e sua madre, casalinga, imolesi, gli hanno trasmesso. Mi rispose mantenendo basso il tono di voce: “scusa, sono all’interno della Città Proibita di Pechino, sto per cominciare un concerto, tra due ore ti richiamo.” Cosa che puntualmente fece, autorizzandomi immediatamente a dare il suo numero al sindaco che lo cercava. Questo è l’uomo che incontriamo oggi.

Massimo Mercelli a diciannove anni divenne professore al Conservatorio e, contemporaneamente, venne nominato Primo flauto al Teatro “La Fenice” di Venezia. Era cresciuto in una famiglia sorpresa del talento del ragazzino ma attenta ai consigli offerti dalla sua professoressa di musica alle medie. Quarant’anni dopo, il figlio del carpentiere ha suonato nelle sale più prestigiose al mondo, duettato con gli artisti più celebri, fatto tappa professionale ogni anno in ciascuno dei cinque continenti. Suoi partner, tra gli altri, sono stati il compianto Ezio Bosso, Nicola Piovani, il grande attore John Malkovich, assieme al quale sta portando in giro per il mondo uno spettacolo. Molti lo reputano il più grande flautista del panorama internazionale: lui, che non dimentica da dove viene, sostiene che certe classificazioni sono fuori luogo e sposta la questione sulla sostanza delle cose: “mi gratifica suonare con professionisti straordinari. Sempre persone siamo: se in treno o in aereo dico che sono un flautista, talvolta mi chiedono che mestiere faccio per mantenermi! Quasi mi vergogno a raccontare le mie giornate, dunque lo evito. Mi tengo stretta la fortuna e cerco di impegnarmi al massimo. È quel che dobbiamo al pubblico, noi che viviamo grazie alla musica. Non serve prenderci sul serio.”

La prima volta che lo accolsi, con gran piacere, a “Salotto blu”, una quindicina di anni fa, mi trovai di fronte un signore alto quasi due metri, dotato di una espressione bonaria e di uno sguardo vivacissimo, che aveva con sé il flauto. Gli chiesi cosa pensasse di farsene, visto che di una conversazione si trattava. Rispose che suonare era l’unica cosa che sapeva fare, che parlare non era il suo forte. Bugia: è un conversatore brillante, acuto, è stato vicepresidente della Associazione europea dei festival. Colsi comunque l’attimo e gli chiesi di suonare a beneficio dei dipendenti della emittente: accettò con il consueto sorriso, fu uno spettacolo.

Giovedì scorso, per questa intervista, l’ho beccato al telefono a Bruxelles. È in Belgio per una serie di concerti.

Quanti aerei hai preso ultimamente?

“Nell’ultimo mese otto, dieci voli sono stati cancellati a causa della pandemia. La vita di tutti è condizionata da quel che sta accadendo. Mi rifiuto di lamentarmi ma tanti lavoratori dello spettacolo attraversano enormi difficoltà. Dovremmo riflettere su questo, a cominciare dai pubblici poteri. Per chiudere l’argomento aerei, negli ultimi dieci anni ne ho presi, mediamente, più di cento cinquanta all’anno. Tra due giorni dal Belgio mi sposto In Svizzera, di seguito andrò in Russia, e così via.”

Descrivi, per favore, il clima che respiri, in Europa e non solo.

“Il mondo è arrabbiato, c’è più aggressività, diminuisce la solidarietà umana e professionale. Per contro, c’è anche chi ha saputo sviluppare affetti e relazioni in modo maggiormente consapevole. Ritengo, però, che si tratti, purtroppo, di una minoranza. Estremizzazioni si fronteggiano, sorgono punti interrogativi sulla situazione geo politica. Sono tensioni che in Italia non si sentono ancora troppo ma che oltre confine sono evidenti. Una situazione molto ma molto meno bella di vent’anni fa”

In cosa, particolarmente, è peggiorata?

“C’è solitudine diffusa, anche tra i giovani che un tempo tendevano all’empatia: in ogni Paese vedi adolescenti con la faccia rivolta esclusivamente al telefono o al palmare, e non è questione di accresciuta dimestichezza con nuove tecnologie. È lo specchio di una artificiosa socializzazione che va sostituendo quei rapporti umani con cui siamo cresciuti e che in ciascun Paese hanno avuto importanza decisiva. “

C’è meno voglia di stare assieme?

“Questa è l’impressione. Ti faccio un esempio: qui in Belgio, qualche anno fa l’associazione europea dei festival commissionò la realizzazione di un documentario su questo argomento. Registrammo gran voglia di collaborazione, di mettere in comune esperienze artistiche e sociali. Temo che da allora si sia incupito il clima: adesso tutti vanno di fretta, ci stiamo spossessando del nostro tempo. E invece il tempo è una gran ricchezza.”

Prospettive per l’ambiente della musica?

“Andiamo incontro a un cambiamento inevitabile. Anche solo per il motivo che mancano da tempo grandi e riconosciuti compositori, il cui talento costituisce la benzina del lavoro dei musicisti e della passione pubblico. Servono nuovi percorsi artistici per offrire allo spettacolo una nuova, indispensabile, popolarità.”

Spiegami di più.

“Nel nostro settore un tempo il genere “pop” era autorevolmente rappresentato da autori come Verdi, Wagner, Puccini, Stravinsky. Il loro lavoro attraeva le folle, trasmetteva emozioni e dava ai musicisti modo di esprimersi. Certi autori non ci sono più, un fiume artistico si va seccando. Senza nuovi autori corriamo il rischio di suonare il passato, al passato. Non è un’opinione azzardata o suggestiva, è aritmetica.”

Lo stato della organizzazione culturale in Italia?

“Era sofferente già prima del covid. Il nostro Paese è la patria della cultura, nessun altro può offrine altrettanta. Ma questa enorme offerta è costretta ad entrare in un imbuto stretto, quello del pubblico: che anagraficamente è sempre più anziano e che tende a restringersi. La pandemia ha reso ancor più sottile l’imbuto.”

Prospettive?

“Mio figlio, che ha trent’anni, fortunatamente si occupa di cose diverse dalla musica. Avessi un figlio musicista sarei preoccupato. Secondo le statistiche, in Italia solo lo 0,3% di coloro che seguono insegnamenti musicali trova lavoro stabile all’interno delle istituzioni, un dato drammatico. Ne fornisco un altro, elaborato recentemente dalla Regione Emilia-Romagna: il trenta per cento lavoratori dello spettacolo ha cambiato lavoro negli ultimi due anni. Si tratta, probabilmente, soprattutto di giovani.”

Un quadro inquietante. Se tu avessi la bacchetta magica?

“Farei scelte in grado di recuperare attenzione da parte del pubblico. Occorre incentivare la domanda, favorire l’accesso allo spettacolo, alle manifestazioni. Bisogna far innamorare le nuove generazioni dello spettacolo italiano. Fa riflettere che in qualsiasi Paese del mondo ci sia interesse, ammirazione profonda, per la tradizione musicale e teatrale italiana e che, contemporaneamente, da noi sia quasi impossibile offrire opportunità ai giovani che se occupano.”

Sei presidente della organizzazione di Emilia-Romagna festival. Cosa state facendo?

“Abbiamo cercato di guardare avanti, pur in mezzo a enormi difficoltà. Abbiamo garantito retribuzione a tutti gli strumentisti nonostante che le manifestazioni fossero sospese. Durante il lockdown ho imparato trentacinque nuovi pezzi, tutti abbiamo fatto lezione a distanza. Passerà, ce la faremo.”

Bene, chiudiamo con tale auspicio. La Romagna ti manca?

“Pensa alle nostre tagliatelle e, invece, a quel che mangio in giro per il mondo, dovendo anche mantenere il rigore indispensabile per suonare. E pensa che sono in Belgio da cinque giorni e non esco dall’albergo perché dal cielo piove continuamente ghiaccio.”

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