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Giovedì, 25 Aprile 2024
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

L'università in Romagna? Un orologio prezioso da mettere a punto. Cambiamento complicato alla periferia dell'impero

Per decrittare le esigenze del presente e capire chi possa occuparsene, è bene sapere come andarono le cose in passato: vi propongo, dunque, sintetizzata, la genesi dell’insediamento universitario in Romagna

Le cose che in Romagna non si possono dire. In questa rubrica, da ora in poi, ogni tanto proveremo ad affrontare alcune delle questioni che, in Romagna, pare non sia educato dibattere. Cominciamo, oggi, dal sistema universitario romagnolo, il cui modello, anche se pare sacrilegio affermarlo, necessiterebbe di una messa a punto, come si fa con gli orologi di gran pregio.

Per decrittare le esigenze del presente e capire chi possa occuparsene, è bene sapere come andarono le cose in passato: vi propongo, dunque, sintetizzata, la genesi dell’insediamento universitario in Romagna. Quando se ne cominciò a parlare, negli anni Sessanta, si pensava ad un Ateneo autonomo della Romagna. Ben presto, però, ci si rese conto che quella strada non era perseguibile: i valorosi pionieri locali non avevano forza politica sufficiente per ottenere le necessarie  autorizzazioni dai ministeri romani. Bologna, antica culla del sapere fornita di intense relazioni nazionali e internazionali, sede di Facoltà prestigiose che le consentivano di concorrere con la Sorbona al titolo di più antica università al mondo, non avrebbe consentito, e non consentì, la nascita di una ruspante concorrente a non più di sessanta di chilometri dalle Due Torri.

Si accettò, pertanto, negli anni Ottanta, l’idea del decentramento, nelle città romagnole, della casa madre bolognese, che rimaneva proprietaria del marchio e del potere decisionale. Ipotesi, va detto, a quel punto caldeggiata dalla stessa politica bolognese per ragioni interne: il numero degli studenti era diventato ingestibile, considerata anche la difficoltà di accoglierli all’interno degli antichi palazzi che ospitavano sedi amministrative e aule didattiche. Di più: sul finire degli anni Settanta la eversione politica aveva trovatom terreno di coltura all’interno di quella massa disordinata di iscritti. Il centro di Bologna aveva vissuto drammatici giorni di stato d’assedio, in occasione dell’omicidio dello studente Francesco Lorusso, avvenuta nel 1977. Sgomberare aule e strade era esigenza didattica e di ordine pubblico.

Nacquero, pertanto, le sedi universitarie decentrate di Forlì, Ravenna, Cesena, Rimini. Una conquista, importante per la Romagna, che premiava gli sforzi di chi ci aveva creduto ma dovuta a una concessione bolognese. Fu, pertanto, Bologna, a decidere quali Facoltà “trasferire” dalle nostre parti, al di là della retorica “patriottica” locale. Che era, peraltro, giustificata. Avere corsi universitari in loco era motivo di legittimo orgoglio: concorrevano ad alzare il livello culturale dei territori, offrivano opportunità ai giovani e davano una robusta mano a settori della economia, quello immobiliare, dei servizi, della ristorazione, etc.

Seppur, non dimentichiamolo, ciò avvenisse a fronte di costi rilevanti sostenuti dagli enti locali e dalle allora solide fondazioni bancarie. La Romagna fece un grande e meritorio sforzo per offrire un futuro migliore alle nuove generazioni. Gli indirizzi dei corsi universitari, lo ripeto, vennero, e vengono, da Bologna. Ne è riprova quanto avvenuto negli anni 2018/19 con la Facoltà (utilizzo il termine Facoltà, ormai dismesso, per facilità di comprensione dei lettori che hanno la mia età) di Medicina: è stata Bologna a proporre il decentramento di corsi che faticava ad ospitare. Opportunità che, per primi in Romagna, Fondazione Carisp forlivese e Comune di Forlì hanno saputo cogliere con lungimiranza.

Per spiegare che non si è trattato di generosità bolognese, preciso che nello stesso periodo l’Università di Ferrara, per ragioni simili a quelle bolognesi, propose di decentrare in Romagna propri corsi di medicina. La questione arrivò sul tavolo delle amministrazioni locali e delle Fondazioni, che dovettero scegliere. So che le cose andarono così perchè lo sanno tutti gli addetti ai lavori, ma anche perché, nel 2019, l’allora Rettore ferrarese, Giorgio Zauli, fu ospite di “Salotto blu” e parlò di tale ipotesi. Per la Romagna risultò naturale seguire l’indirizzo bolognese e nessuno, al momento, può affermare che si sia trattato di scelta sbagliata.

Dagli anni Novanta, gli insediamenti universitari romagnoli di strada ne hanno percorsa. Che siano risultati utili a economia e socialità locali è indubbio. Che siano sempre più frequentati dagli studenti lo è altrettanto: Ravenna, Rimini, Forlì, Cesena, città a misura d’uomo, dense di attrattive sociali e culturali di prossimità, dotate di sedi comode, sono in testa alle classifiche di gradimento stilate dagli universitari e suscitano talvolta sentimenti di rivalsa nel bolognese.

Nessuno lo dice ma tutti lo sanno che non di rado docenti e personale amministrativo romagnoli vengono trasferiti a Bologna, impoverendo la proposta didattica locale e la possibilità di rafforzare le reti di collegamento con i territori. Bologna non è cattiva di per se, è semplicemente proprietaria del marchio, come una compagnia automobilistica o di assicurazioni; delle proprie filiali decide insegne , strategie e politiche del personale. Amen. Poi, se ci piacciono le favole, crediamo a bei discorsi e foto oppurtunity.

In fondo, sapevamo che le cose stavano così dall’inizio, non potevamo fare diversamente e non abbiamo vissuto male. Nella vita c’è di peggio. Ora, però, si pone una questione seria e indilazionabile: i corsi universitari locali sono in grado di offrire effettive opportunità professionali al gran numero di studenti?

Il senatore forlivese Leonardo Melandri, che fu protagonista assoluto della venuta dell’università in Romagna trovando robusto appoggio nel ravennate Antonio Patuelli, nel cesenate Oddo Biasini e nel riminese Nicola Sanese, era solito ricordare ai collaboratori: “dobbiamo stare attenti che, mentre elaboriamo risposte, non siano cambiate le domande”. La questione sta proprio qui. E’ possibile che corsi concepiti trent’anni fa, nel contesto di una economia e di una società profondamente diverse dalla attuale, abbiano perso la propria efficacia di interagire con il territorio e di offrire opportunità di lavoro ai laureati, un lavoro da trovare in Romagna o altrove?

La risposta è si, quella efficacia è in parte venuta meno. Trent’anni fa servivano figure professionali che oggi non esistono più, quando ne servirebbero altre. Un solo esempio, tra i tanti possibili: al tempo esisteva una forte richiesta di personale qualificato da parte delle pubbliche amministrazioni mentre oggi Comuni, Province, Camere di Commercio, aggiungiamo le Associazioni d’impresa, per via del risparmio imposto, delle nuove tecnologie, etc, di fatto non assumono più.

Circostanza che pone alcuni indirizzi universitari romagnoli nella condizione di non offrire più opportunità d’impiego. Inutile e volgare elencare quali indirizzi,  basta ragionarci un po' sopra. Per contro, le imprese chiedono percorsi di studio, professionalità e agilità di pensiero che i corsi romagnoli offrono solo in parte; quella parte che, guarda caso, crea tuttora discrete, talvolta ottime, opportunità di collocazione nel mondo del lavoro. Le domande sono cambiate, occorrerebbe elaborare nuove risposte. Ma non saremo, stando così le cose, noi romagnoli a decidere il cambiamento. Non abbiamo a disposizione le leve giuste: son cose che, eventualmente, si decideranno a Bologna. Se e quando non è dato agli umani sapere. Optare per il cambiamento è complicato ovunque, in famiglia, in azienda, in una comunità. Diventa ancor più difficile se ti trovi alla periferia dell’impero e sai che non sarai tu a indicare la strada.

Ci sarebbe la politica a poter chiedere il cambiamento. Ma chi sa se la politica ha capito come stanno le cose? Mi riferisco alla politica romagnola, è su quella che occorre fare affidamento: si è mai vista la politica bolognese scapicollarsi per fare gli interessi della Romagna? Buona domenica, alla prossima.

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