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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

L'escalation di violenza sulle donne, è l'ora di portare le testimonianze nelle scuole

Si, in Romagna, noi uomini, le donne non abbiamo perso il vizio di ammazzarle. E prima di farlo le vessiamo, le picchiamo, cerchiamo di annullarne la personalità. Sembra incredibile, nella terra dell’accoglienza

La parità di genere: chiamate le donne a parlare nelle scuole, spiegate agli studenti come stanno le cose. Nel 1844 Emily Bronte, una ragazza inglese di ventisei anni, che quattro anni dopo sarebbe morta per una malattia che oggi si curerebbe con un antibiotico, scrisse “Cime tempestose”, il romanzo più innovativo e potente dell’epoca. I recensori, all’interno della ristrettissima ed elitaria società letteraria, non sapevano come catalogare quel romanzo che aveva due diverse voci narranti e che inscenava lo scontro drammatico tra il potere maschile, detenuto dal terribile Heathcliff, disposto, tra violenza e oscurantismo, a far pagare a chiunque la propria infelicità, e la speranza di autonomia incarnata dalla adolescente autodidatta Caty. Una specie di eresia culturale, nell’epoca vittoriana nella quale nove donne su dieci non sapevano leggere e nella quale alle femmine era interdetto  scrivere. Il romanzo si fece strada, lentamente, nell’immaginario collettivo universale: un numero infinito di racconti, film, fiction hanno pescato fino ad oggi, più o meno apertamente, nelle atmosfere e nei personaggi descritti dalla ragazza di cagionevole salute.

Perché vi parlo di Emily Bronte all’interno di una rubrica dedicata a questioni romagnole? Perché Emily, e la sua Caty, mi sono sovvenute quando, nelle scorse settimane, ho intervistato, a Salotto blu, donne che, in Romagna, guidano due delle associazioni che assicurano supporto, protezione e riservatezza alle tante, troppe, donne maltrattate. Anche, se necessario, trasferendole in case sicure e poi assistendole, gratuitamente, verso percorsi di rinascita. Ho appreso, e imparato, cose che non sapevo, sul comportamento di certi uomini e sulla vastità del fenomeno. Che va ben oltre le notizie di cui disponiamo.

Si, in Romagna, noi uomini, le donne non abbiamo perso il vizio di ammazzarle. E prima di farlo le vessiamo, le picchiamo, cerchiamo di annullarne la personalità. Sembra incredibile, nella terra dell’accoglienza. Quella in cui, duemila anni fa, il console Emilio Lepido, partendo dall’Arco d’Augusto a Rimini, prese a tracciare la Via Emilia, sulla quale hanno camminato popoli e culture e attorno alla quale s’è andata costruendo una delle civiltà più evolute al mondo. 

E’ mostruoso, eppure è così. Le operatrici dei centri anti violenza, che in veste di consulente e talvolta di testimone, frequentano i tribunali, mi hanno spiegato che raramente un uomo si cimenta nella violenza fisica senza essere passato in precedenza dalla violenza psicologica. Che si manifesta in vari modi. Nel caso, ad esempio, di un terribile femminicidio perpetrato tempo fa a Ravenna, anche con la proibizione, per la compagna, di leggere libri. Leggere, istruirsi, è libertà di crescere. E, con la crescita di una donna, il maschio teme di perderne il controllo. Cerca, di conseguenza, di riprenderlo con mezzi sempre più coercitivi e violenti. Il raptus non esiste, è la paura di perdere il controllo sulla donna a determinare la sopraffazione e, non infrequentemente, l’ infame tragedia.

Sono sempre di più le donne che si rivolgono ai centri anti violenza per chiedere conforto e, spesso, protezione. Si tratta nella maggior parte  di donne italiane, appartenenti a ceti sociali diversi. Togliamoci l’alibi che si tratti esclusivamente di donne immigrate, appartenenti a culture diverse dalla nostra. Le operatrici mi hanno spiegato anche che una cosa che si potrebbe fare concretamente, per provare a disegnare un futuro diverso, è andare nelle scuole: spiegare, con il linguaggio e le professionalità giuste, il valore della parità di genere. Che non è, al momento, valore acquisito. 

Ecco perché mi permetto di lanciare un appello ai dirigenti scolastici, agli assessori al ramo. Chiamate persone che conoscono la materia, che operano sul campo, a spiegare come stanno le cose. Non sono un educatore e dunque non ne ho certezza, ma, forse, non è troppo presto per affrontare un tema del genere con studenti di età anche precoce. Mi fermo, le autorità scolastiche e civili sanno cosa fare. Mi limito a segnalare che i centri anti violenza che ho incontrato sono “Linea Rosa” di Ravenna e “Demetra Donna” di Lugo, ma in Romagna ce ne sono altri, di eguale preparazione ed efficienza. Credo che tutti, se contattati, siano disponibili a dare una mano e a offrire testimonianza.

Nella nostra terra sono numerosi i gruppi che si muovono in questa direzione, così come le iniziative, pubbliche e private, volte alla difesa dei diritti femminili. E’ un fatto positivo e non scontato, l’Emilia Romagna è la Regione più organizzata, in questo ambito. Ma, forse, è venuto il momento di parlare di queste cose agli adolescenti, forse anche ai bambini. Con le dovute cautele, certo. Del resto, cos’altro tentare? Nonostante gli sforzi di tanti, nulla sta cambiando, se non in peggio.

Sei anni dopo l’uscita di “Cime tempestose” Nathaniel  Hawthorne dette alle stampe il celebre romanzo “La lettera scarlatta”, ambientato nella Boston di due secoli prima. Ricordate cos’era quella lettera? Il segno della colpa, la A di adultera che le donne dovevano obbligatoriamente cucire sul petto. A metà del Seicento, nell’America puritana, la colpa era della donna, a prescindere. E’ cambiato molto, da allora, nella Romagna aperta a ogni cultura? Realisticamente, si. Ma negli intimi pensieri di certi uomini e, diciamolo, anche di qualche donna, le cose stanno ancora così. Dobbiamo  disinnescare la folle prospettiva di scaricare le nostre frustrazioni avendo come alibi la presunta colpa femminile, che è solo quella di esistere come essere pensante, come portatrice di opinioni, speranze, emozioni. I servizi televisivi che giungono dall’Iran ci indignano, giustamente. Cominciamo, allora, a dare una bella ripulita agli armadi di casa nostra. L’antibiotico l’abbiamo inventato; oggi Emily Bronte, probabilmente, vivrebbe cent’anni. Ma siamo certi che tutti rispetteremmo le sue idee?

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