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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Nicoletta, l'esperta che conosce i "luoghi silenti" della Romagna carichi di storia

Nicoletta di mestiere è psicologa e formatrice di risorse umane, attività accattivanti e che basterebbero, ma coltiva, fin da piccola, curiosità per luoghi romagnoli che ama definire silenti

Nicoletta Timoncini di mestiere è psicologa e formatrice di risorse umane, attività accattivanti e che basterebbero, ma coltiva, fin da piccola, curiosità per luoghi romagnoli che ama definire silenti. Sull’argomento, ha scritto, con penna felice e leggera, due bei libri pubblicati dall’editore “Ponte Vecchio” di Cesena. Ho potuto conoscere, attraverso qualche colloquio telefonico, una persona dai tratti originali: le piace scoprire e descrivere atmosfere d’un tempo, la durezza e il fascino del vivere aspro che fu, con rigore storico e partecipazione emotiva. Tutto nacque quando veniva accompagnata, da Porto Corsini, alle Terme di Fratta. Nicoletta veniva dal mare, le verdi colline, le pietre, le storie, la inducevano ad allargare la mente. Prese a frequentare la storia dimenticata, gli anfratti, le vicende umane. Si fece esploratrice. E’ allegra, rapida di pensiero, educata alla modestia. Quella passione, quel preferire alla movida le escursioni, le risalite dei fiumi, le conversazioni con chi ancora può ricordare, possono sorprendere,  ma la psicologa è lei, di certo non m’avventuro a spiegarlo io. L’ho chiamata qualche giorno fa: è un po' contrariata per via che ha beccato il Covid per la seconda volta, ma lo spirito è indomito.

Nicoletta, da dove vieni?
Da una famiglia che da molte generazioni vive a Porto Corsini. Il nonno era portuale, il babbo muratore, la nonna mondina nella risaia. Sapevamo da dove viene il pane, la fatica delle persone m’è sempre apparsa tratto di nobiltà.

Nei tuoi libri descrivi un robusto numero di luoghi romagnoli, se ti va, viaggiamo verso alcuni di essi.
Volentieri.

Partirei da Maria Assunta Novelli, figura sconosciuta ai più.
Era la bella mora ventiquattrenne che faceva parlare di sé all’interno di quella piccola comunità di pescatori che era Casal Borsetti nel 1905. Fu barbaramente uccisa sulla spiaggia dove venne ritrovato il cadavere. Il suo corpo straziato e muto celava l’identità dell’assassino. L’indagine che ne scaturì, però, non fece luce: il processo e l’assoluzione di un finanziere, invaghito di lei e respinto, lasciarono impunito il delitto. 

Una giovane libera, a quei tempi suscitava più curiosità che solidarietà?
Probabilmente si. Della sua fine non se ne parlò troppo, per quel che ho potuto appurare. Il femminicidio, che nel 1905 non veniva chiamato così, è testimoniato ancor oggi, però, da un cenotafio, un cippo funerario, avviluppato dalla pineta di Marina Romea, da cui Maria Assunta ci restituisce uno sguardo in bianco e nero, carico di malinconia, presagio del suo triste destino.  Evidentemente qualcuno, con quel cenotafio, ha voluto impedire che ci si dimenticasse di lei. E’ la forza della memoria.

Spostiamoci a Villa Boccaccini.
Che è situata lungo la statale Romea, dove la provincia di Ravenna lascia il passo a quella di Ferrara; uno sguardo attento può cogliere, fra i rovi, ciò che resta della villa in cui nel 1976 Pupi Avati girò il film "La casa dalle finestre che ridono". Era la villa dei Boccaccini, una delle più antiche e facoltose famiglie di Comacchio, decorata con numerosi affreschi murali che la resero icona dello stile liberty ferrarese. Alcuni affreschi sono ancora visibili, sulle pareti consunte dal tempo. 

Quel film giovanile di Avati, che da poco aveva lasciato l’attività di musicista, era un “noir”. L’ambientazione risultò perfetta.
Concordo, è sempre stata considerata, del resto, la villa, luogo di misteri. Non so dire perché sia rimasta abbandonata e non azzardo ipotesi. Chi sa quali e quanti accadimenti si sono svolti al suo interno! E’ luogo imperdibile per una passeggiata domenicale, se si è attratti dall’ignoto.

Sulla collina cesenate-forlivese si trova l’ex villaggio minerario di Formignano
Sin dall’epoca romana Formignano era nota per la sua miniera di zolfo. Venne chiusa nel 1962 e il villaggio fu abbandonato, portando con sé la memoria delle durissime esistenze dei minatori. Storie di fatica e sofferenza, di povertà ed emigrazione, che ho tentato di testimoniare attraverso documenti scritti, ma anche con i racconti orali di chi aveva vissuto sulla propria pelle gli ultimi anni in miniera. 

Ho amici illustri tra i figli di minatori: Elide Giordani, già portavoce dell’ordine nazionale dei giornalisti, Giancarlo Petrini, direttore del Credito Cooperativo Romagnolo.
Che i figli abbiano potuto raggiungere tali risultati è sintomo della crescita sociale della Romagna; le condizioni di lavoro in miniere erano terribili, mi riferisco all’Ottocento, in particolare. Ho ritrovato scritti vergati del medico della miniera: era diffuso l’alcolismo, si verificano frequentemente risse, anche omicidi.  E’ vero che c’era abitudine consolidata a rimanere chiusi, era la caratteristica e la forza dei minatori, ma non mancavano manifestazioni di claustrofobia.

Spostiamoci a Castiglioncello, nell’ imolese.
Il borgo abbandonato di Castiglioncello, frazione di Firenzuola, si staglia su di un promontorio situato sulla sinistra del fiume Santerno, su quello che era stato il confine tra Granducato di Toscana e Stato Pontificio, ora fra Emilia Romagna e Toscana. Le case vuote, delimitate dai ruderi di due chiese e da un cimitero disabitato, emanano un fascino antico. Le pietre diroccate evocano immagini  di un passato che dal IX secolo giunge, praticamente immobile, al secondo dopoguerra del novecento. 

Nei pressi hai incontrato qualcuno?
Sono state preziose alcune testimonianze che mi hanno riportato indietro nel tempo, in un mondo di fatica nei campi e serate condivise a veglia, di antiche usanze e di grandi solidarietà umane. Un signore mi ha raccontato che durante le piene del fiume si restava isolati, anche a lungo. In autunno si battevano le castagne, facendole cadere con dei bastoni. L’ultima abitante rimasta, solitaria, era una donna. Nel  1985 la figlia, che da tempo si era trasferita, la convinse a scendere a valle.

Andiamo a Strabatenza, nell’alto cesenate.
Il villaggio si trova nella valle del Bidente di Pietrapazza, a 695 metri sul livello del mare, nel comune di Bagno di Romagna. Dell’antico castello non resta nulla e ben poco anche delle case, distrutte con la dinamite dopo lo spopolamento degli anni Sessanta del secolo scorso. Restano la chiesa e il cimitero. Il monumento all’Ottava Brigata Garibaldi e il sentiero del partigiano Janosik permettono di mantenere vivo il ricordo dell’ultima guerra. 

Anni fa mi fermai a Strabatenza con mia moglie, in un agriturismo. Notai una lapide: riportava i nomi di una quindicina di giovani del posto, soldati, morti in tutta Europa durante la seconda guerra mondiale. Immaginai ragazzi che non avevano fatto in tempo a vedere Forlì o Cesena. Una intera generazione cancellata. 
Lapidi simili a quella non è impossibile scoprirle altrove, in Romagna. Hai ragione a pensare che, forse, quei ragazzi non avevano visto Forlì o Cesena: Strabatenza era lontana da tutto, considerando i mezzi di trasporto disponibili un tempo. Le maestre arrivavano a dorso di mulo, stremate dal lungo viaggio e alloggiate in una stanza attigua alla unica classe. Dai registri scolastici ho scoperto che capitava che qualche alunna arrivasse in ritardo: per arrivare a scuola si doveva stare un’ora a dorso di mulo, dopo essersi svegliate con il buio e avere accudito le bestie.      

Andiamo al castello di Cusercoli
Nel comune di Civitella sorge il maestoso castello, posto su di uno sperone di roccia calcarea che sbarra la vallata e devia il fiume Bidente. La storia millenaria si dipana assieme alla leggenda, rievocando battaglie di guelfi e ghibellini, i Malatesta e i Guidi di Bagno, la vicenda di Paolo e Francesca, le gesta di popolani rivoltosi. Dalle grate occhieggiano affreschi che lasciano immaginare l’affascinante passato. 

Dimmi la tua sulla allocazione della vicenda di Paolo e Francesca.
Tutti sanno che c’è una disputa, sull’argomento. Storia e marketing territoriale fanno prevalere la ipotesi che la tragedia si sia svolta a Gradara, anche se non esiste documento che lo attesti. Peraltro, è certo che Paolo Malatesta, dal 1269, fosse conte di Giaggiolo, avendo sposato la signora del luogo, Orabile Beatrice. Giaggiolo si trova a un tiro di schioppo da Cusercoli e dal rudere della Rocca di Castelnuovo. E’ probabile che Paolo risiedesse abitualmente in queste località, tanto che diversi studiosi, forse anch’essi influenzati dal marketing territoriale, hanno collocato la vicenda narrata da Dante a Castelnuovo o a Cusercoli. C’è una sola certezza: nessuno ha potuto dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio, una tesi o l’altra.

L’ultima escursione la facciamo a Sarsina, dove hai scoperto una meravigliosa arte in via d’estinzione.
Si, nell’antico borgo pietrificato di Castel d’Alfero. Si erge su quello sperone roccioso almeno dal 1216, protetto dall’oratorio della Madonna della Neve, sorto perché leggenda vuole che in agosto cadde la neve. Nel borgo vive ancora Emanuele Bernabini con la madre. Lui è un cavatore di pietra serena, unico a lavorarla ancora a mano, come gli hanno insegnato il nonno e il padre, a loro volta istruiti dagli avi. Qui nel Cinquecento portarono la loro opera i Maestri Comacini, membri di una corporazione di imprese edili itineranti provenienti dalla Lombardia. Bernabini è, metaforicamente, l’ ultimo erede di quella tradizione.

Nicoletta, è stato un bel viaggio, grazie del passaggio. In bocca al lupo per le tue prossime mete.
Grazie a te.


Buona domenica, alla prossima.

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