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Giovedì, 18 Aprile 2024
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

I Maestri: Marco Maltoni, l’oncologo dell’ultima, tenace, speranza

Esiste, in Romagna, una rete oncologica che ha pochi parenti nel mondo per efficacia, dignità scientifica e capacità di coinvolgere società e volontariato

Esiste, in Romagna, una rete oncologica che ha pochi parenti nel mondo per efficacia, dignità scientifica e capacità di coinvolgere società e volontariato. L’ultimo baluardo della rete, collocato sulla frontiera tra speranza e ignoto, è costituito da quelle strutture che chiamiamo abitualmente Hospice, all’interno delle quali medici, infermieri, operatori, combattono assieme ai pazienti e ai loro cari, la battaglia decisiva. Tra medicina, psicologia, tenerezza, valorizzazione della dignità in qualsiasi fase della esperienza umana.

A guidare queste strutture, al cui interno si praticano cure palliative un tempo poco conosciute ma che oggi vengono insegnate nelle università più prestigiose al mondo, c’è un medico forlivese alto, dai tratti pacati e distinti, sorridente e riflessivo. Poi, cosa frulli all’interno della sua anima, lo sa solo lui. Marco Maltoni è, prima ancora di essere gran medico e capace organizzatore, uomo profondamente buono. Chi lo frequenta lo sa e lo racconta. Chi non lo conosce di persona, comunque, immagina, che un mestiere come il suo, una missione come la sua, presupponga il possesso di una rara predisposizione all’empatia. Mi capitò di frequentare ed apprezzare suo padre Giorgio, amato primario di urologia dell’ospedale Morgagni dalla simpatia contagiosa e dalla battuta pronta. Immagino che il suo esempio abbia costituito riferimento per il figlio, anche se non credo che Giorgio  gli abbia mai imposto nulla.

Marco, perché decidesti di fare il medico?

Effettivamente mio padre non mi ha indicato la strada, anche se si mostrò contento della mia scelta. Andò così: lui era sempre in ospedale, allora non esistevano orari, in casa sapevamo che il mestiere lo prendeva totalmente per quanto avesse, lo dico senza retorica, grande attaccamento alla famiglia. Mi feci fin da ragazzino l’idea che quella del medico fosse lavoro coinvolgente. L’idea di annoiarmi la respingevo, volevo spendermi in qualcosa. Una vera consapevolezza, però, arrivò solo negli ultimi anni di università.

Perchè la scelta di oncologia?

All’università oncologia medica non era esame fondamentale ma complementare. Era così soprattutto perché ogni forma di specializzazione arrivava dopo le discipline di base ma anche perché, all’epoca, dai tumori, generalmente, non si guariva. L’oncologia era temuta dalle persone e scartata dai medici, il tumore era considerato anticamera della morte. A me, invece, piacque immediatamente: pensavo che sui tumori si giocasse la partita decisiva.

Mi sovviene il ricordo di Dino Amadori, fondatore dell’Istituto Oncologico Romagnolo e dell’Irst, che intervistai e che ebbi il piacere di accompagnare in numerose uscite pubbliche. Mi spiegò che quando era giovane l’oncologia italiana non era organizzata autonomemente ma inglobata nei reparti di medicina: per l’organizzazione sanitaria del tempo non valeva la pena profondere troppo sforzi, visto che non c’era speranza. Fu proprio Amadori uno dei pionieri della materia che dettero dignità e organizzazione all’oncologia.

Esattamente, le cose andavano così. Amadori è stato mio maestro, sia dal punto di vista scientifico che da quello dell’approccio al malato e alle sue esigenze. Un uomo formidabile, cui tanti medici, e un gran numero di pazienti, sono debitori. Magistrale con i giovani ma severo. Quando iniziai a collaborare con lui mi disse, con chiarezza che non lasciava dubbi: “So bene che sei il figlio di Giorgio ma rimani nel gruppo solo se lavori sul serio, altrimenti ti caccio”. Lo avrebbe fatto, a lui nessuno aveva mai regalato nulla.

Come nacquero gli Hospice?

Nel medioevo accoglievano i pellegrini che andavano in Terra Santa, poi i poveri. Nel  1967 in Inghilterra avvenne una rivoluzione nella cultura sanitaria, grazie alla intuizione di una infermiera, Cicely Saunders, poi rafforzata dagli studi di un medico, Balfor Mount.  Saunders assisteva  ogni giorno a due tipi di approccio alla malattia oncologica avanzata, entrambi sbagliati:  i poveri venivano più o meno abbandonati a se stessi, su coloro che potevano permettersi cure e assistenza si concentrava, al contrario, una sorta di accanimento terapeutico. Si teorizzò, allora, che potesse esistere una terza via, rispettosa della speranza e della dignità.

Quindi nacquero strutture che, nel nome, si richiamavano a modelli antichi.

Che, via via, affinarono modalità operative confrontandosi con la rapida evoluzione delle scienza e della farmaceutica. L’idea era quella non di dare a tutti costi giorni in più alla vita ma vita dignitosa ai giorni. Inizialmente, agli Hospice erano indirizzati soprattutto i malati terminali, per accompagnare nel modo migliore possibile gli ultimi periodi. Oggi non è così, alle cure palliative accedono pazienti in fasi diverse e anche non solo quelli colpiti da tumori. All’inizio, una innovazione operativa fu quella di non aspettare l’insorgenza del dolore ma di somministrare morfina a orari fissi. Determinante era comunque l’approccio umano, la relazione, importante anche per i medici e i sanitari. Per capirci, oggi le cure palliative sono applicate, nel sessanta percento dei casi, a chi non è nella prospettiva del fine vita. Non sono l’anticamera della morte ma altro.

Ci puoi dire di più?

Ci occupiamo dei bisogni fisici, dei percorsi gestionali del malato, di affrontare ansia e depressione di chi soffre fisicamente e convive con la minaccia della morte, di pianificare del futuro. Decidiamo, sentendo anche l’opinione del paziente e dei suoi cari, quanto procedere o interrompere le terapie. Di promuovere la socialità del paziente, importantissima non solo in previsione del fine vita ma anche per risolvere necessità quotidiane.

Rimane il fatto che frequentemente tu e il tuo staff dovete confrontarvi con la morte. Il paziente capisce quando arriva quel momento, lo riconosce? 

Ci sono segnali che i medici riconoscono, non sempre il malato può farlo. A volte ne ha consapevolezza, ma non nelle ultime ore, quelle in cui le sue condizioni peggiorano. Fino a poco prima alcuni hanno modo di prepararsi, prendere commiato dai familiari, mettere a posto cose della propria esistenza. 

Chiunque immagina la quantità di dolore, del malato e dei familiari, che tu e le persone che lavorano con te, assorbite quotidianamente. Tu sei credente, la fede aiuta?

Ci sono colleghi e operatori non credenti, che fanno questo mestiere con enorme umanità. Li accomuna a chi crede la ricerca del significato della esistenza, l’aspirazione al bene. Qualcuno, tra noi, pensa di avere trovato la risposta, non certo per merito ma per grazia o per ventura. Io ritengo di avere avuto questa grazia. Mi è utile? Non sai quante volte me lo sono chiesto.  Ti posso dire che credo che il corpo malato che ho davanti sia più di un corpo. Ci sono colleghi, colleghe, con cui ho lavorato e lavoro che la pensano come me, forse anche questo aiuta. Ma ho trovato identica empatia con colleghi che non credono.

Momenti di scoramento?

Ci sono situazioni umane e familiari più drammatiche di altre. Con i colleghi, con le persone che lavorano con noi,  a volte non ci siamo vergognati di ritrovarci a piangere assieme in una stanzetta attigua a quella del malato, di fronte a situazioni sue o dei parenti che ci apparivano strazianti. Ma occorre ripartire, siamo lì per fare il nostro dovere.

Anni fa intervistai un poliziotto che operava in condizioni estreme e pericolose. Mi spiegò che lo confortava il senso del gruppo, la vicinanza dei colleghi.

Il paragone mi piace. Il nostro è lavoro che si può fare solo solo assieme, in equipe. Ognuno deve essere disposto a mettersi in gioco, se uno si sente vuoto, sfinito, e capita, sa che si può fidare di chi ha vicino. Con professionalità diverse. L’infermiere che sta nove ore in corsia, la Oss che è vicina al malato quanto i medici, la psicologa, il medico che, magari, fa solo un giro al giorno in corsia. Anche l’assistente spirituale. La famiglia del malato, poi, è parte del gruppo curato e del gruppo curante. Anche se a volte, in riunione, ci sono pareri discordi sul da farsi, tra noi e le famiglie, poi si trova sempre la sintesi

Il malato, a un certo punto, percepisce di non farcela?

Ormai il malato è consapevole che l’hospice non è anticamera della morte, si lavora per togliere il dolore fisico e talvolta ce la si fa.  Però privilegiamo un clima di verità massima possibile, il nostro lavoro è anche trasmettere consapevolezza sulle reali condizioni, al malato e ai parenti. Uno ha diritto di sapere, seppur nel modo giusto.  Tu hai frequentato Dino Amadori, sai che diceva che negli Usa, per via delle polizze assicurative, ti sbattevano in faccia, e lo fanno anche adesso, che eri destinato a morire, freddamente. C’è un confine tra la verità dovuta e la spietatezza. Anche perché esiste la guarigione e serve la convinzione del malato.

Il ruolo dei familiari?

Importantissimo. Le famiglie non sono tutte uguali, vengono talvolta da lunghi percorsi di malattia che le hanno segnate, sfinite.  Noi dobbiamo accettare il loro modo di essere, non giudicare. A volte, come ti dicevo, facciamo riunioni con loro  per stabilire il da farsi. Il paziente stesso ci dice chi considera più familiare di un altro, con chi rapportarci più intensamente. Non possiamo entrare nelle dinamiche interne alle famiglie ma solo rispettarle. 

Cosa porti a casa la sera?

La mia casa non è mai stata fuori dalla attività lavorativa. Porto racconti di straordinaria esperienza umana, ovviamente nel rispetto della privacy giuridica e della riservatezza che è regola deontologica del nostro gruppo di lavoro. Abbiamo, talvolta, in famiglia, occasione di condividere i tratti di una meravigliosa umanità, quella che ho lo scandaloso privilegio di incontrare ogni giorno.

Saluto Marco Maltoni e trasmetto a lui, e alle persone che lavorano con lui, anche a nome vostro, un immenso grazie. Buona domenica, alla prossima.

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