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Giovedì, 25 Aprile 2024
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Il mito del bar per noi romagnoli e per Secondo Casadei: il tormentone di Eulalia Torricelli

Noi di queste parti al bar ci siamo cresciuti, ci abbiamo portato il fidanzatino/a per la cioccolata in tazza, ci abbiamo sproloquiato alla vigilia delle nozze, ci abbiamo giocato a carte, a calcino, a flipper, ai videogiochi

Questa settimana abbiamo cominciato a toglierci le mascherine, almeno all’aperto. Una gran bella notizia; presto, auspicabilmente, potremo andare smascherati anche al bar, a quel punto si spargerà la sensazione di una normalità ritrovata. A proposito di bar: ricordate quanto ci sono mancati durante il primo lockdown, nel 2020? Facevamo la voglia al caffè, al cappuccino, alla brioche, come fossimo assetati nel deserto. Di fondo, ci mancavano la convivialità, il cazzeggiamento, quel sentirsi partecipi, quello spazio ristretto che tanto assomiglia a un palcoscenico ove essere, a seconda delle inclinazioni, pubblico o primi attori. 

I bar, al tempo, mancarono a tutti gli italiani ma ai romagnoli in particolare. Noi di queste parti al bar ci siamo cresciuti, ci abbiamo portato il fidanzatino/a per la cioccolata in tazza, ci abbiamo sproloquiato alla vigilia delle nozze, ci abbiamo giocato a carte, a calcino, a flipper, ai videogiochi, prima e dopo il servizio militare, ci abbiamo portato il marito o la moglie per la tombola di Natale, ci abbiamo raccontato una valanga di balle, ci abbiamo visto le partite in ipnosi collettiva prima che Sky e Dazn si intrufolassero, ben pagati, in casa nostra.  E molto altro ci abbiamo fatto, non tutto può essere raccontato.

Un capitolo meriterebbero i baristi e le bariste, nostri imprescindibili compagni di viaggio. Quanto ci hanno sopportati, con quale pazienza! Con modi squisiti negli eleganti bar di Marina Centro, formali in quelli di città, più sbrigativi nei bar di collina e di periferia. Ma sempre con professionalità e quel tocco di comprensione umana che fa il vero barista, con una impagabile propensione all’ascolto. Chi sono, in fondo, baristi e bariste, se non le uniche persone cui puoi raccontare la vita che vorresti avere come fosse quella reale senza rischiare d’essere mandato a quel paese? Baristi e bariste ti perdonano le bugie come nessun altro, seppur dispongano d’un fiuto da segugio. Potrebbero essere ottimi detective, bonariamente fanno finta di crederti. Ne hanno viste di cose, loro, che noi umani non possiamo immaginare. Le navi da guerra in fiamme oltre i bastioni di Orione, per un barista, sono pane quotidiano. Vogliamo parlare, poi, di quello che han sopportato a pandemia in corso? Si sono trasformati in psicologi, assistenti sociali, terapeuti; l’Ausl potrebbe riconoscere ai baristi una specializzazione “honoris causa” e qualche emolumento. Insomma, senza quell’ora d’aria buona, al bar, è difficile vivere.

Sapete chi era assiduo frequentatore di bar? Secondo Casadei, Maestro di musica e socialità, studioso autodidatta ma acutissimo della psicologia umana e, in particolare, del modo d’essere dei romagnoli. Oltre mille canzoni, accompagnate da strofe brevi e acuminate, nacquero dall’ osservazione del prossimo. Dove studiava quei caratteri, lo Strauss di Sant’Angelo di Gatteo? Al bar. La sua vita rigorosa, refrattaria alla mondanità e imperniata su composizione e famiglia, gli lasciava qualche ora al giorno, che lui spendeva regolarmente al caffè. Dove?  Al “Caffè Centrale” di Savignano, gestito da Amilcare e Tonia, ove quest’ultima, negli anni Cinquanta, sgridava la piccola Riccarda, figlia del Maestro, che talvolta entrava a salutare il babbo, ammonendola: “Le donne non debbono abituarsi a frequentare il bar, non è posto loro”. Un decennio dopo, al bar Levante, sempre a Savignano, accompagnato dal cane “Bif”, che il Maestro aveva addestrato a mettersi su due zampe per ottenere lo zucchero, suscitando l’ilarità dei presenti. D’estate, al bar sulla spiaggia di “Marino”, a Gatteo Mare, ove si radunavano gli amici di sempre, musicisti i cui nomi sono scolpiti nel Pantheon della cultura folk romagnola. Oppure a Cesena, al “Caffè Centrale”, ogni mercoledì, per partecipare al “mercato degli orchestrali” che si teneva all’Emporio Francolini.  Ma anche a Cesenatico, al bar “Zara”, ove si teneva il meeting dei musicisti locali, con il Maestro impegnato a dispensare suggerimenti e consigli. 

Ma il luogo d’elezione di Secondo era Forlì, il Cittadone, che da ragazzo molto aveva ammirato e che tante occasioni professionali gli aveva concesso, a cominciare dall’esordio, negli anni Venti, a Villafranca. E, di conseguenza, lo erano i bar forlivesi. Ogni notte, al ritorno dalle serate, Secondo si fermava al “Bar Giardino”, in Piazzale della Vittoria, luogo d’incontro di orchestrali da tutta la Romagna, per un toast e una birretta. A dispensare, bonariamente, il proprio saper comporre e saper vivere ai giovani colleghi, che lo ascoltavano in rispettoso silenzio. 

Nota è la frequentazione del “Central bar”, in Piazza Saffi.  Ogni lunedì, giorno di mercato, Secondo saliva a Savignano sulla “Sita”, la corriera pubblica, e scendeva di fronte al “Central bar”, per trascorrervi qualche ora. Lì si radunavano musicisti e impresari, nascevano occasioni di lavoro, si stipulavano accordi. Ne aveva bisogno, Secondo? No. Erano gli anni Sessanta, “Romagna mia”, del 1954, aveva già fatto più volte il giro del mondo. Ma il Maestro rimaneva sul pezzo, presidiava. Fernando Asioli, che fu pianista dell’Orchestra Casadei e che fondò prima “La Bussola” e poi “La Porta d’oro” (è il padre di Barbara, presidente dei tributaristi di Forlì e Cesena), mi ha raccontato qualche mese fa che Secondo cercava di garantire lavoro ai propri orchestrali. Con lui non c’era bisogno di firme, la stretta di mano era patto inequivocabile.

Al “Central Bar” nacque la rivisitazione della immaginaria figura di Eulalia Torricelli. Cari lettori/ lettrici, se chiedete ai vostri genitori, ai nonni, scoprirete che tutti, in Italia, ne avevano sentito parlare, di questa tale Eulalia da Forlì. Era stata immaginata negli anni Quaranta dal paroliere Nisa per poi perdersi negli scantinati della memoria collettiva. La riscoprì Secondo, con un “Cha cha cha” che divenne tormentone, accompagnato dai versi che qui sintetizzo: “Seduto di Lunedì al Central bar di Forlì, conobbi l’Eulalia che non tiene castelli ma ha occhi belli”, e via di seguito con le rime. Eulalia visse, da allora, una seconda giovinezza di popolarità nazionale; era bella e non restia ai complimenti ma, purtroppo, non è mai esistita. Suppongo che, visto che se c’è qualcosa che a Forlì non è mai venuta meno sono le belle signore, il Maestro, scorgendone una tra le tante, sotto i portici, l’abbia associata alla leggendaria Eulalia, offrendo a quest’ultima stagioni di successo. Del resto, come ci si ispira al bar non ci si ispira da nessuna parte. Senza nulla togliere al verde meraviglioso delle nostre colline, all’azzurro intenso dei tramonti in Adriatico.
Spero che questi fugaci aneddoti portino fortuna a baristi e ristoratori, tanto colpiti nel loro orgoglioso lavorare da pandemia e restrizioni. Per aiutarli non servono paroloni sociologici, basta andarli a trovare nei bar, nei ristoranti. Anzi, rivolgo un appello ai baristi, pazienti ascoltatori di bugiardi. I miei abituali baristi/e, cui voglio bene, non se la bevono più, ho raccontato loro troppe volte che da ragazzo sarei stato un gran calciatore se un infortunio non mi avesse bloccato. Se c’è un barista disposto a crederci me lo faccia sapere, diverrò cliente abituale.

Buona Domenica, alla prossima.
Post-scriptum.
L’immagine che accompagna questo pezzo ritrae il Maestro Casadei, con l’abito bianco, in un bar estivo, probabilmente a Cesenatico. La signora con la spilla al petto è Arte Tamburini, voce solista della orchestra, prima e indimenticata cantante di una band romagnola. La foto è tratta dall’archivio di Riccarda Casadei, figlia di Secondo, e ferma uno dei tanti momenti in cui qualcuno si avvicinava al babbo per una foto da conservare. Cominciava l’era dei selfie. 

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