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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Storie di ordinaria femminilità, Alice Pignagnoli: "Continuerò a parare, per tutte le bambine che vogliono farlo"

Alice, che è laureata in comunicazione a Milano con centodieci e lode, c’ha messo un attimo a scrivere un libro, “Volevo solo fare la calciatrice”, edito da Minerva

Alice è una trentaquattrenne in attesa del secondo figlio, felice, simpatica e bella, sempre che, al giorno d’oggi, uno possa scrivere che una donna è bella senza essere lapidato sulla pubblica piazza. Corro il rischio, del resto ne corre di più seri lei, uscendo dalla porta a rotta di collo per contendere la palla ad attaccanti che calciano mentre lei ci mette la faccia. Alice è un portiere, anni fa era considerata una delle tre migliori del calcio femminile italiano. Ha giocato nel Milan, nel Napoli, nel Genoa, ma anche nel Cesena, nell’Imolese, nel Riviera di Romagna. Come non di rado capita alle donne, di lei molto si è parlato per motivi extra professionali. Quando rimase in cinta per la prima volta i dirigenti del Cesena, correttamente, non esitarono a confermare il contratto che la legava alla società. Non altrettanto accadde alla Lucchese in occasione della seconda maternità, quella attuale. La circostanza, ripresa dai giornali, ebbe vasta eco. Alice, che è laureata in comunicazione a Milano con centodieci e lode, c’ha messo un attimo a scrivere un libro, “Volevo solo fare la calciatrice”, edito da Minerva. Un racconto onesto e divertente che ho letto prima di conoscerla e che molto mi ha fatto capire del calcio femminile. Poi, a “Salotto blu”, mi sono reso conto che questa ragazza ha qualche marcia in più, non perché dispone di muscoli esplosivi ma per il carattere e per l’agilità di pensiero. Per questa conversazione l’ho sentita giovedì scorso.

Alice, da dove vieni?
Da Reggio Emilia, babbo dirigente d’azienda, mamma impiegata in banca. Scelsi il calcio da bambina, non fecero nulla per ostacolarmi. Anche se, al tempo, il calcio femminile era considerato una stravaganza. E anche se desideravo essere chiamata Alicio. Cosa non facile da comprendere per un genitore.

Sai che, sul punto, circolano luoghi comuni sul calcio femminile...
Vuoi che non lo sappia? Non volevo essere maschio, era un modo per essere considerata dell’ambiente. Mi tagliavo i capelli apposta. Giocavo in squadra con i maschi. I genitori delle squadre avversarie se la prendevano con i figli, dicevano che avevano perso contro una bambina. In realtà  ero forte, ho giocato a centrocampo fino a sedici anni.

Come sei finita in porta?
In porta, maschi o femmine, da bambini ci mettono quelli scarsi fuori. A sedici anni giocavo in mezzo, nelle giovanili della Reggiana femminile. Venne a mancare la disponibilità di un portiere, la nostra allenatrice era stata portiere della nazionale, sapeva che facevo  il libero in una squadra di pallavolo. Mi fece un provino, poi disse che da portiere avrei avuto un futuro. Di lì a poco esordì in prima squadra.

Quello del portiere è ruolo coltivato, nel calcio femminile?
Non come dovrebbe. Le misura della porta sono pensate per gli uomini. Le donne molto alte, che pur ultimamente si vedono, sono sempre stata merce rara. Io sono un metro e settanta, per intenderci. Oggi quasi tutti i portieri maschi superano il metro e novanta. Anche sulle metodiche di allenamento si potrebbe fare di più.

Non sono identiche a quelle maschili?
No, anche perché le donne, se escludiamo le calciatrici top, devono fare, necessariamente, altri lavori. Pensa che quando giocavo nel Milan mi allenavo alle otto di sera, con il gelo, perché parte delle compagne di squadra uscivano dal lavoro a quell’ora. Adesso, con il professionismo varato dalla Federazione, molto cambierà in meglio. Ma parliamo, comunque, di Serie A. L’intensità dell’allenamento fa la differenza.

Occorre una bella determinazione…
Chi fa sport lo sa, si fanno anche cose apparentemente irragionevoli per coltivare quello che comunemente si definisce sogno. Ma che non è esattamente questo, è una passione coinvolgente. Quanti ragazzi capiscono presto che non diventeranno calciatori milionari, eppure continuano tenacemente? Tanti. In mezzo a difficoltà che non appaiono tali a chi fa sport. Se andare in campo è la cosa migliore che pensi ti possa capitare, ci vai a prescindere.

Calcio o amore è scelta che ti sei dovuta porre?
Il mio Luca ha fatto il calciatore in Eccellenza, sa cos’è la febbre del pallone e non mi ha messo i bastoni tra le ruote. Da parte mia, sapevo da sempre che avrei voluto nutrire la mia parte affettiva, però a lungo mi sono detta che non avrei trovato la persona giusta. La priorità era il calcio di alto livello. Non sapevo se e come avrei potuto far quadrare le cose.

Poi?
Poi durante le vacanze di Natale, giocavo in Sardegna, nella Torres, sono tornata a Reggio. Calcola che, visti gli impegni e i costi dei viaggi, erano mesi che non lasciavo l’isola. In discoteca, una sera, conobbi Luca.

Quella sera non uscisti per intercettare un cross ma per fare danni..
Si. Non ero in tuta, ero tirata. Non ero male. Ci siamo innamorati. Ho dovuto guardarmi dentro. In quel periodo ero nel lotto dei primi tre o quattro portieri italiani, ma pensai che i sentimenti, la prospettiva di mettere su famiglia, erano più importanti. Tieni presente anche che Luca, giocando in Eccellenza, guadagnava più di me che giocavo in Champions Legue.  Discorsi che poi, se t’innamori, passano in cavalleria.

Hai avuto ripensamenti?
Mai. Piuttosto è stato il calcio a farmi riflettere. Quel che mi è accaduto a Lucca per la seconda maternità mi ha colpito ma è così noto che è inutile tornarci sopra. Preferisco dirti che, quando giocavo a Mantova, le difficoltà mi mandarono in crisi. Non ero felice, ricorsi alle cure di uno psicologo. Lo racconto perché tante ragazze non si vergognino di farsi aiutare. Sono sempre stata considerata reattiva, una tosta, eppure non ce la facevo. E Luca, fortunatamente, mi era accanto.

Capita, nel calcio femminile?
Di andare dallo psicologo non so, di incontrare grandi difficoltà certamente. Anche nel calcio maschile ci sono i furbi, i lupi, chi fa affari su di te. Ma in quello femminile mancano i soldi, una organizzazione diffusa, una tradizione. Se uno decide di non pagarti, e tu mangi di quello, lo fa anche perché le squadre sono poche. Nel calcio maschile c’è maggiore richiesta di calciatori, una calciatrice, invece, dove va? O finisce lontanissimo o smette.

Che somme girano?
In serie A qualche decina di migliaia di euro all’anno ormai è regola, le campionesse anche di più. Soprattutto ci sono tutele previdenziali e sanitarie. Consideriamo che dai tutto sul campo e che a 35 anni, mediamente, devi riorganizzare la vita da capo. In serie B, tranne il caso di qualche squadra, si mescola chi viene dalla A con chi è disposto a giocare quasi gratis. Nel nostro mondo mancano le categorie intermedie, quelle in cui un calciatore maschio può comunque appoggiarsi.

Il livello del managment?
Un tempo si vedeva di tutto, dirigenti illuminati e gente improvvisata.  Persone che da un momento all’altro sparivano, e con loro se ne andavano le speranze di ragazze che vantavano inutilmente un tot di stipendi arretrati. Adesso è entrata in gioco la Federazione, con essa regole più stringenti.  

Hai un compagno calciatore, ti sei allenata anche con gli uomini. Atmosfere e riti di spogliatoio sono gli stessi?
Sono più dissimili di quel che si pensi. Noi dovremmo imparare la fratellanza che c’è tra i maschi, ci facciamo prendere da egoismi. Avevo colleghe che non si passavano la palla per antipatia, così perdevamo le partite.  E’ così in tutto lo sport femminile e anche  negli uffici femminili. Mi dispiace dirlo: siamo più intelligenti, brave, creative degli uomini ma ci perdiamo in piccole invidie.

Il potere rimane degli uomini, come in altri luoghi di lavoro?
Purtroppo si, la poca professionalità che c’era fino a qualche anno fa non ha aiutato. Si viaggia per  amicizie, reti di relazioni. A volte mi chiedo se gli addetti ai lavori che praticano i campi vedono realmente le partite, se sanno valutare le giocatrici. Deve crescere la professionalità. 

Nel tuo ruolo in particolare, c’è paura della deturpazione estetica, del trauma ? Il calcio è sport di contatto, anche violento.
Ho sempre avuto tanta voglia di giocare che non mi sono posta la domanda. Adesso, alla mia età, dico che fare sport ad alto livello ti ricompensa anche sul piano fisico, mi ritrovo piuttosto ben mantenuta. Le mamme temono che il calcio ti sformi, invece il corpo ha memoria, ti aiuta. I miei addominali sono quelli che ho fatto per una vita, ogni giorno.

Cosa cambi nel calcio femminile,  se diventi ministro dello sport?
Prima di tutto garantisco i diritti minimi fin dalla serie C. Tante hanno dovuto smettere perché non ne avevano, anche se brave. In serie A le cose cominciano a funzionare, anche per ciò che concerne la nostra immagine. Adesso vanno su Sky, ci tengono', un tempo si trascuravano. Io non incarnavo la figura canonica della calciatrice perchè ci tenevo un po' all’estetica. 

Continuerai a giocare?
Certo, dopo questa seconda maternità tornerò in campo, non so dove e in quale campionato. Quando vado alle presentazioni del mio libro, mamme e bambine mi chiedono se da piccola mi prendevano in giro o mi bullizzavano. C’è ancora questa paura, occorre cambiare cultura. Riprenderò a parare, per me stessa e per ogni bambina che voglia farlo.

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Alice Pignagnoli

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