Quando Secondo Casadei riprese a fare il sarto, casa per casa
E’ una storia suggestiva, quella di Secondo Casadei, che ci insegna cose. Ecco il racconto
Qualche tempo fa mi trovavo a Savignano, a casa di Riccarda Casadei, figlia di Secondo. E’ la villetta edificata dal Maestro quando Riccarda e suo fratello Gian Piero erano ragazzi. Tra una chiacchiera e l’altra vidi, appoggiata, forse dimenticata, su una mensola, la valigetta che compare nella fotografia che accompagna questo articolo. Chiesi perché quell’oggetto, appartenente ad altra epoca, si trovasse lì. Riccarda rispose: “è la valigetta che mio babbo utilizzava negli anni Quaranta, che furono i peggiori”. Affermazione fatta con il consueto garbo dalla signora che, con “Casadei Sonora”, è custode della tradizione culturale dello “Strauss di Romagna”, ma anche con un velo di tristezza nello sguardo. Non era valigetta da musicista, evocava un periodo davvero difficile per la famiglia Casadei.
E’ una storia suggestiva, ci insegna cose. Provo, sinteticamente, a raccontarla, sperando di riuscirci. Secondo, partiamo di lì, era nato nel 1906 a Sant’Angelo di Gatteo. Babbo Federico era sarto, anche ambulante, e fece di tutto per insegnare il mestiere a Secondo (gli altri figli erano Angela e Dino, il padre di Raoul Casadei), che accompagnava il babbo nelle case di campagna a riparare abiti ma coltivava il sogno di diventare grande violinista. S’appoggiò al mestiere del padre fino ai sedici anni, quando, nel 1922, Emilio Brighi, leader della più importante orchestra romagnola, lo assoldò come secondo violinista per un importante concerto da tenersi a Villafranca di Forlì. Fu la svolta, Secondo abbandonò il mestiere del padre e si dedicò alla musica.
Qualche anno dopo Secondo fondò la propria orchestra, in un crescendo di successi e di innovazioni stilistiche. Valorizzò l’utilizzo del clarinetto in do, già in uso presso le orchestre romagnole dai tempi di Carlo Brighi, padre di Emilio, per accelerare i tempi di valzer, polca e mazurca. Introdusse ex novo sax, batteria e banjo, strumenti mai utilizzati in Romagna. Nel 1930 compose “Un bes in bicicleta”, la prima di tante canzoni in dialetto romagnolo, mutuando l’esperienza della canzone napoletana di cui Secondo era studioso.
In precedenza, per capirci, in Romagna esistevano cante collettive o musica da ballo. Nessuno aveva pensato di valorizzare il dialetto per strofe coinvolgenti che accompagnassero la musica. Secondo divenne il musicista romagnolo più popolare e apprezzato, fu il primo a incidere a Milano, con “La Voce del padrone”, dischi che gli italiani ascoltavano con i grammofoni in casa o, più spesso, nei luoghi di ritrovo.
Casadei, negli anni Trenta, era per tutti “Il Maestro”: si mettevano in salotto le sue fotografie, si raccontava a veglia d’averlo conosciuto, ci si vantava d’averlo sentito suonare dal vivo. Eppure, il figlio del sarto non aveva perso un grammo della disponibilità, di quel rispetto per chiunque, in particolare i meno fortunati, che lo caratterizzavano. Era cresciuto con poco, non faceva distinzione tra il ricco e il povero. Era sempre lui a fermarsi per strada a salutare, in centro storico a Forlì o a Ravenna, di fronte a un palazzo signorile, in un casolare di campagna, in una trattoria. Non aspettava d’esser riconosciuto o vezzeggiato. Era un uomo così,il destino lo compenserà per quella delicatezza d’animo, come vedremo.
Arrivò il 1940, e la guerra. Si spensero le luci, non si faceva più festa. Non si suonava più. Per tutti arrivarono privazioni e angoscia. Secondo non lavorava più, l’orchestra era sciolta, e nulla, pur essendo lui uomo di comportamenti modesti, era rimasto da parte. Per la semplice ragione che al tempo un musicista si manteneva, se aveva il successo di Secondo, ma non s’arricchiva. C’era la famiglia da mantenere, quella che aveva costruito con Maria nel 1935. Furono anni durissimi, i Casadei furono perfino costretti a sistemarsi un una stalla. Della vita precedente Secondo aveva potuto salvare solo il violino e qualche spartito delle proprie composizioni. Ma non aveva dimenticato l’antico mestiere.
Si provvide di una valigetta, esattamente quella che notai quel giorno in casa di Riccarda, quella che vedete nella fotografia ai piedi di una immagine sorridente del Maestro scattata a fine anni Sessanta.
Con quella valigetta, che conteneva ago, filo, qualche scampolo di stoffa, il necessario per qualche riparazione, Secondo, che già aveva composto canzoni indimenticabili, che per una quindicina d’anni aveva suonato nei palazzi nobiliari di città, negli stanzoni disadorni di periferia, nelle aie, applaudito, elegante, carismatico, dal 1941 fino al 1947 si mosse di casa in casa, attraverso viottoli infangati, chiudendo con mollette i lembi dei pantaloni dell’unico vestito che aveva conservato, mentre perlustrava in bicicletta le campagne che univano il cesenate al mare. Proponendo, umilmente ma sempre con il sorriso, il proprio mestiere di sarto ambulante.
Erano anni difficili per tutti. Non c’erano abiti da festa da realizzare, né per gli uomini, né per le donne. C’era da fare qualche lavoretto, non di più. Eppure, tutti aprivano la porta al Maestro. Se non c’erano soldi per pagarlo, e spesso non c’erano, lo si ricompensava con frutta, verdura, pane. Che lui, il più grande compositore di folk romagnolo mai esistito, accettava con riconoscenza e consegnava, a sera, a Maria perché sfamasse i bambini. Tutti sapevano chi era quell’uomo, come si era comportato quando era sulla bocca di tutti, non avevano dimenticato.
E, tenetelo presente, nessuno poteva immaginare che dieci anni dopo, con “Romagna mia”, quell’uomo avrebbe fatto conoscere la propria musica in tutto il mondo. Il Maestro, in quelle case di gente semplice, era accolto non perché si scommettesse su di lui, che anzi, pareva avere imboccato il viale di un irreversibile tramonto. Lo si accoglieva semplicemente perché era fatto come ciascuno di quei contadini e operai, era uomo che non aveva attitudine a piangersi addosso. Uno che sapeva che la dignità non la si onora con il conto in banca.
E, per la cronaca, quando, solo a metà degli anni cinquanta, tornò a percepire la dolce carezza del successo, quando “Romagna mia” consentì a lui a Maria, a Gian Piero, a Riccarda, una vita ben diversa, Secondo non cambiò d’una virgola: il Maestro era impegnato con la sua orchestra ogni sera dell’anno, ma se lo chiamavi a presenziare a un matrimonio potevi contare su di lui, sul violino, sul sorriso bonario. Anche negli anni sessanta, quando l’orchestra, aggiunse il nome del nipote Raoul Casadei, altro fuoriclasse per talento e umanità, di cui vi parlerò una delle prossime domeniche.
Mi fermo qui, inutile versare righe e retorica, i fatti bastano. Mi piaceva far sapere ai meravigliosi ragazzi, romagnoli e no, quelli che lo scorso Maggio, con la vanga in mano, cantavano “Romagna mia”, di che pasta era l’uomo che compose quella canzone e che, nel 1971, se ne andò prematuramente. Lui e loro parlano la stessa lingua.
Aggiungo un’informazione. Di Carlo Brighi, detto “Zaclen”, di Secondo e Raoul Casadei, delle loro vicende umane e artistiche, della storia immortale del Liscio, parleremo in Piazza Saffi a Forlì il 2 e 3 Settembre. Soprattutto, si farà, ininterrottamente, grande spettacolo con musicisti e cantanti formidabili. Con le magiche atmosfere del Liscio, tradizionale e rivisitato in chiave moderna. Chi vorrà potrà ballare. E’ evento totalmente gratuito. Vi consiglio di prenotare il vostro gratuito posto a sedere per tempo, il tel è 712362 la mail è iat@comune.forli.fc.it
Buona domenica, alla prossima.