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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Storie di ordinaria femminilità: Silvia Mambelli, campionessa, infermiera, dirigente Ausl. Sempre al massimo, con passione

Da adolescente prese a correre in bici, arrivò alla maglia azzurra della Nazionale maggiore, al campionato mondiale di Sallanches, nel 1980, fu tra le prime. Fu per anni una delle migliori stradiste italiane

Silvia Mambelli è tosta, sul serio. Da adolescente prese a correre in bici, arrivò alla maglia azzurra della Nazionale maggiore, al campionato mondiale di Sallanches, nel 1980, fu tra le prime. Fu per anni una delle migliori stradiste italiane. Una successiva carriera l'ha portata a diventare Direttrice del settore infermieristico della Ausl Romagna, con responsabilità su diverse figure professionali e quasi undicimila persone. La conobbi a "Salotto blu", una dozzina di anni fa. Me ne avevano descritto la biografia, nella mia insipienza m'aspettavo un mix tra una muscolosa virago e una delle algide manager cantate da Roberto Vecchioni. Incontrai una signora sottile, elegante, cauta, gentilissima. Ogni risposta trasmetteva intelligenza, il linguaggio era  asciutto e competente. In lei antichi valori rurali convivono con le sfide della modernità. Volontà di ferro e sorriso di velluto, con Silvia prendere o lasciare. Immagino anche in privato, ma non sono fatti miei. Per questa conversazione l'ho intercettata al telefono giovedì scorso,  in ora antecedente il pranzo.

Silvia, da dove vieni?
Da Villafranca di Forlì. La mia è famiglia semplice, operaia, affettuosa, unita. Sono l'ultima di sei sorelle, la maggiore ha vent'anni più di me. Forse i miei genitori aspettavano un maschio: ho preso la questione come sfida con me stessa. Ogni giorno, in qualsiasi ambiente, ho cercato di dare il massimo, ottenere stima e fiducia.

La bicicletta, come cominciò?
Fin da ragazzina ero attratta dalle scoperte, da attività non consuete. A Villafranca organizzavano ogni anno la Coppa Giulianini. nota competizione ciclistica. Suscitava interesse, anche il mio. Mi dissi: anche se sono femmina, chi me lo impedisce? Mi feci prestare la bici di mio cognato e mi buttai. Certo, non m'aspettavo di arrivare in Nazionale, ma limiti non me ne davo.

Immagino i fischi di ammirazione al tuo passaggio.
Tu scherzi ma arrivavano davvero, oltre a salaci commenti. Era un'altra epoca, di donne in bici non se ne vedevano tante, il maschilismo dilagava. Davanti a qualche bar, a volte la cosa diventava indegna. Mi imbarazzava, ma la facevo scivolare via. Volevo pedalare, il resto era problema altrui.

Silvia, la linea telefonica è disturbata e stai facendo rumore. Puoi star ferma?
No, sto preparando una vellutata di asparagi in cocotta con gamberi. Amo la cucina elaborata e cucinare mi rilassa. Quindi continuo: non sono come te che fai una sola cosa alla volta, noi donne siamo diverse.

Ok. Quanta bici fai, adesso?
Quando ero all'Ausl potevo uscire solo nei festivi. Ho ritrovato il gusto della gestione del tempo e di ciò che mi piace. Esco in bici tre volte a settimana, vado abbastanza lontano e abbastanza forte. La domenica, poi, viaggio con un gruppo di amici che si ritrova a Forlimpopoli. Facciamo percorsi impegnativi: tocchiamo ogni volta i duemilacinquecento metri di dislivello e i duecento chilometri complessivi.

Alla faccia, farei fatica in moto. Come arrivò la scuola infermieri?
Su consiglio di mia mamma, mia guida e consigliera di sempre. Me la indicò come bella professione, mi iscrissi alla scuola a sedici anni. Ho corso in bici fino a ventidue anni, assommando studio, lavoro e agonismo. Poi ho ripreso a studiare: ho fatto le superiori, l'università e la laurea magistrale. Sempre seguendo l'evoluzione normativa della professione.

Una volta, in tele, mi dicesti che ti sei sempre sentita infermiera, dentro.
Lo confermo. Anche quando ho avuto compiti più complessi sono rimasta infermiera, il più bel lavoro al mondo, il più utile. Alleviare problemi e sofferenze è una specie di miracolo. E' ciò che ho sempre trasmesso insegnando alla scuola infermieri. Se nella mia numerosa famiglia qualcuno non si rivolge a me me la prendo.

La sanità, pubblica quando hai cominciato, com'era?
Era una organizzazione di tipo espansivo, con una offerta di servizi e prestazioni infinita. Il progetto era dare tutto a tutti, come se non avesse alcun costo. Sono sempre stata dalla parte della sanità pubblica ma mi facevo domande, mi chiedevo come quel sistema avrebbe potuto sostenersi, alla lunga. 

Il cambiamento che ti ha più colpito?
Quello conseguente alla introduzione della Legge 502. Nasceva la concezione aziendale, un cambiamento di mentalità sconvolgente. Il messaggio era: evitiamo sprechi. Applicandolo, si sono fatti anche errori, alcuni gravi. Ma era inevitabile arrivare lì, per quel che ho detto un minuto fa.

Sei debitrice a qualcuno, hai avuto maestri?
Sono sempre stata un cavallo libero ma anche una attenta osservatrice dei migliori. Ho rubato con l'occhio il comportarsi di persone di grande spessore. Uno per tutti Dino Amadori, che ha dato la vita per creare qualcosa di importante e utile. Sai, nella vita privata c'è chi mi ha rimproverato di essermi annullata per il lavoro. Forse è stato così ma l'ho fatto ammirando il percorso di gente migliore di me e non me ne pento.

Direttore infermieristico della Ausl Romagna. Oltre diecimila persone cui dare indirizzi. Maggiore la soddisfazione o la tensione?
Preponderante la preoccupazione quotidiana di essere all'altezza del compito. I miei colleghi s'occupavano della vita e della salute di un numero enorme di persone, io dovevo fornire loro linee operative. Venivo dal loro lavoro, ero stata in quei luoghi, quei reparti, sapevo cosa affrontavano ogni giorno e ogni notte. 

Chi è stato ricoverato sa chi sono gli infermieri, commoventi. E con quali conoscenze, anche tecnologicamente avanzate, operano. Però non sono in prima pagina, mi riferisco soprattutto alle decisioni aziendali.
E' cosa che mi fa imbestialire. Penso allo spessore umano e professionale dei miei colleghi e a quanto sia misconosciuto. Arriva la pandemia e diventiamo per qualche mese eroi; prima e dopo siamo marginali, talvolta anche nelle strategie organizzative.

Ho sentito grandi medici, lo stesso Dino Amadori, Claudio Vicini, Alberto Zaccaroni, affermare, non solo in pubblico ma anche di fronte a un caffè, che occorre rivalutare la figura infermieristica.
Bisogna che se ne convincano i manager, anche a livello regionale e nazionale. Sulla stima dei medici, soprattutto dei più vicini alla concretezza delle questioni, da tempo possiamo fare affidamento.

Ho un sospetto: contate poco perchè siete in maggioranza donne.
Butti la palla così, magari casualmente, ma sappi che è tema dibattuto, se ne parla nei convegni interni, nei seminari, partendo dall'assunto che oltre il settanta per cento della categoria è composto da donne. Penso, tuttavia, che non si tratti solo di questo. Preponderante è il fatto che la professione medica oscura, magari senza volerlo, quella infermieristica. E' ben altro il potere contrattuale dei medici.

Sono stato assistito da due eccellenti professioniste: Patrizia Bezzi, logopedista, ha contribuito a ridarmi la voce. Eleonora Magnani, ortottista, ha fatto lo stesso con la mia vista. Determinanti, eppure, prima, non sapevo che quei mestieri esistessero.
Come capita a tanti, prima di aver bisogno di quelle delicate professionalità, poco riconosciute, anche economicamente, ma fondamentali. Quei ruoli sono spesso non sufficientemente coperti, nelle aziende sanitarie. Ne servirebbero di più, come servirebbero più infermieri. E' questione di potere contrattuale ma anche di immagine: sai raccontare, racconta quei mestieri.

Ho raccontato storie di banche, so che più crescono e meno rimangono locali. Una azienda sanitaria che diventa grande smarrisce il cuore?
Allargando gli orizzonti operativi si perde un po' il contatto, piccolo è sempre bello, lo sappiamo. Ma da noi, in Romagna, prevale un fatto culturale, quello della vicinanza alle persone e della responsabilità. Quando l'azienda si allarga forse i massimi vertici si allontanano un po', ma medici, infermieri e altri professionisti sono lì a presidiare, sanno cosa devono fare e il cuore ce lo mettono sempre.

Un anno fa sei andata in pensione. Sensazioni?
Fisicamente ottime, sono allegra, faccio cose diverse. Eppure, il non poter essere utile alla sanità mi lascia il retrogusto della dispersione di un patrimonio professionale, di una conoscenza. Intendiamoci, nessuno è indispensabile, vengo dallo sport e conosco le regole di fine carriera. Però la sensazione di sentirmi ancora in grado di far bene, di poter dare una mano, ce l'ho.

Vado frequentemente da Meldola a Forlì in bici, la domenica mi allungo a Messa a Forlimpopoli. Se mi incontri, superi e mi deridi o ti fermi e mi controlli le pulsazioni?
Rallento, per te vado troppo forte, accosto delicatamente e, data la tua non verdissima età, mi accerto che vada tutto bene. Se ti trovo a posto mi congratulo: muoversi, fare attività aerobica, all'aria aperta, senza sforzi eccessivi, è la migliore delle medicine.

Ringrazio Silvia Mambelli. Buona domenica, alla prossima.
 

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