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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Storie di ordinaria femminilità, la regista: "Cinema dominato dai maschi, ma io credo nel matriarcato"

Maria Martinelli, cineasta ravennate, è in grado di passare dal documentario d’inchiesta al cinema d’autore senza smarrire passione civile e vocazione al localismo

La Romagna, pur con le tante vocazioni che può vantare, non è terra nella quale d’abitudine si produca cinema. Per invertire la rotta servono talento e determinazione, virtù di cui dispone, oltre a schietta simpatia, Maria Martinelli, cineasta ravennate in grado di passare dal documentario d’inchiesta al cinema d’autore senza smarrire passione civile e vocazione al localismo. A partire dagli anni novanta, i documentari da lei realizzati, diffusi da Rai, Mediaset, Telepiù, hanno fatto incetta di premi. Martinelli è regista, produttrice e manager. Ed è propugnatrice dell’esperienza cooperativa, di cui “Start Cinema”, il gruppo di lavoro che guida da anni, è esempio. A breve uscirà nelle sale il film, premiato al Torino Film Festival, “Redenzione”, tratto dal romanzo “Corpi estratti dalle macerie”, dello scrittore Franco Calandrini, edito da Clown Bianco. Per questa conversazione l’ho sentita al telefono qualche giorno fa.

Maria, da dove vieni?

Da una famiglia tradizionale. Mia mamma era maestra elementare, mio babbo, Vincenzo Martinelli, era funzionario organizzativo della Democrazia Cristiana ravennate. Da bambina sentivo nominare l’intera classe dirigente DC, a cominciare da Benigno Zaccagnini, di cui il babbo era sostenitore e che ho incontrato molte volte.

Zaccagnini fu segretario nazionale nei terribili anni del sequestro Moro. Dunque, la vostra era famiglia convintamente cattolica. Il che non ha impedito che da quella casa uscissero due artisti liberi e aperti.

I nostri genitori non hanno impedito nulla a mio fratello e a me, ci hanno incoraggiati. Mio fratello, Marco Martinelli, è regista teatrale, drammaturgo e si occupa anche di musica lirica. Gode, come sai, di riconoscimento internazionale. Abbiamo provato a darci da fare, guidati da passioni che i nostri genitori hanno compreso.

Veniamo a te: hai cominciato con Rocco Siffredi, buongustaia!

C’avrei giurato che saresti partito con questa battuta! In realtà avevo già realizzato molteplici produzioni. Quello cui ti riferisci è un documentario d’inchiesta commissionato negli anni novanta da “Tele Più” che girammo in tutta Europa. Si intitolava “Gladiatori, reportage sul cinema hard”. Certo,  devo ammettere che raccolse parecchio interesse.

Scherzavo. Seriamente, come cominciò la tua avventura professionale ?

Con mio fratello cominciammo a fare teatro nel 1977. Poi, negli anni novanta, mentre lui continuava in quel campo, iniziai a realizzare cortometraggi e documentari, mi appassionavano i temi sociali e quelli femminili in particolare. Affrontai, tra le altre, le tematiche delle donne soldato e quelle degli amori tra donne. I pregiudizi, il loro desiderio di avere figli. Ho avuto la fortuna di potermi esprimere liberamente e di avere riconoscimenti. Circostanze che mi hanno incoraggiato a continuare.

E’ noto. Come lo è che hai preferito l’organizzazione cooperativa rispetto ad altre forme d’impresa. Perché?

Vengo dalla generazione che, approcciando alle forme artistiche, era abituata a condividere tutto. Nella Romagna, soprattutto nella Bologna di quegli anni, in cui noi ci muovevamo, vigeva l’idea di  collettivo, di comunità d’intenti. Ti posso fare l’esempio del celebre “Living Theatre”? 

Certo, me ne parlò anche Ruggero Sintoni, presidente di “Accademia Perduta”, il quale, in seguito all’incontro con “Living Theatre”, visse una determinante svolta personale e professionale.

Esatto. La compagnia, sorta a New York, dominava la scena internazionale, tra innovazione e cultura. Giunse a Bologna e si fermò per un pò, noi la vedevamo come esperienza mitica. C’erano aspetti artistici e di organizzazione, a colpirci. L’idea di condivisione era dominante: pensa che i leader viaggiavano con il sacchetto degli incassi con i quali si alimentava la vita comunitaria. Nel 1981 partecipammo al grande Festival di Santarcangelo con la nostra compagnia, “Linea Maginot”, con spirito simile.

La regia è cosa per donne?

I ruoli d’indirizzo, nel cinema, sono poco frequentati dalle donne. Abbiamo contato pochissime donne regista. Attualmente, sulla scena internazionale, ce ne sono due, tre al massimo, che siano considerate davvero di successo. In Italia abbiamo avuto la Cavani, la Wermuller, la Comencini, bravissime ma statisticamente una rarità.

Perché fate fatica? 

Se ci venissero offerte opportunità sapremmo prenderle, non abbiamo nulla di meno degli uomini. Il cinema, come altri ambienti professionali, è dominato dai maschi, cominciando da chi finanzia. Nel nostro ambiente le donne sono storicamente individuate per fatti estetici, sappiamo che le attrici, in genere, devono essere prima di tutto belle. Anche se spesso sono soprattutto brave, e potrebbero essere impiegate in diversi ruoli artistici e di indirizzo. Io, poi, credo nel matriarcato.

Interessante. Cosa per intendi per matriarcato ?

La donna, se impiegata in ruoli direttivi, apporta proprie caratteristiche specifiche: sensibilità, capacità di inclusione e condivisione. Perchè è predisposta ad essere madre, anche se madre non è, per scelta o per qualsiasi altro motivo. Non sono affatto ostile agli uomini, la mia vita privata lo testimonia. Ma penso che noi abbiamo qualità di cui gli uomini, in generale, non dispongono.

Il cinema pare progressivamente soppiantato dalle serie televisive. La drammaturgia è destinata ad essere seriale?

In materia, non ci sono verità assolute. Il film, per ragioni ovvie, sviluppa una  drammaturgia più limitata. Talvolta esiste il bisogno di dilatare i tempi, la narrazione si sente soffocata, nei novanta minuti di un film. La serialità  conduce per mano gli spettatori, i protagonisti diventano compagni di viaggio. Ma a volte il tempo di un film è preferibile. Alcune narrazioni, poi, diventano seriali per ragioni commerciali, non per effettive esigenze artistiche.

Tu difendi l’idea del cinema di territorio...

Locale e contemporaneamente globale, è questa la nostra filosofia. Il cinema diventa contenuto universale che parte del territorio e lo abbraccia. Chi ha detto che storie della nostra terra non interessino ovunque? Operi qui, utilizzi professionisti della tua Regione, muovi un indotto. Stai qui ma parli a chiunque.

La nostra Romagna è spesso identificata per il folklore, penso alla musica,  piuttosto che per la drammaturgia...

E’ vero, ma pensa al capolavoro, diretto da Valerio Zurlini, “L’ultima notte di quiete”, con Alain Delon nel suo indimenticabile cappotto con il bavero rialzato e Giancarlo Giannini nel ruolo di Spider. Ambientato in una Rimini riscoperta, lontana dagli stereotipi vacanzieri. Una storia che ha interessato il mondo, con grande scavo dei personaggi.

Il personaggio è centrale nella tua idea di narrazione?

Oggi si è spesso ossessionati dalla trama, quando si fa un film o si scrive un racconto. Si è persa un po' la capacità del racconto sospeso, volto all’approfondimento delle atmosfere, dei personaggi, di temi centrali nell’esistenza umana. Io, invece, mi sento vicina al lavoro di Zurlini. Nel mio film “Redenzione”, c’è un ritorno a quella idea di cinema.

 A proposito, dicci qualcosa del film in uscita..

E’ cinema da camera, ambientato all’interno di un appartamento, due amanti debbono fare scelte decisive, il loro passato ritorna. Della trama null’altro posso aggiungere.

Mi rendo conto. Degli aspetti organizzativi, però sì. 

Come sai, il film  è stato presentato, e premiato, al Torino Film Festival. Lo abbiamo potuto realizzare dopo avere vinto il bando, indetto dalla Regione Emilia Romagna, “Film Commission”. Abbiamo reperito altri fondi, adesso iniziamo la distribuzione. L’esordio avverrà il prossimo Giovedì 30 Marzo, al cinema Mariani di Ravenna, nell’ambito della rassegna del “Circolo dei sogni”. Poi comincerà il viaggio nelle sale italiane.

In bocca al upo a Maria Martinelli, e alle persone che lavorano con lei, per la nuova avventura. Buona domenica, alla prossima.

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