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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Storie di ordinaria femminilità: Nadia Somma, a fianco delle donne maltrattate con rigore e speranza

Nadia Somma fa il punto sulla violenza di genere: "Il fenomeno è diffuso in modo trasversale e riguarda, più o meno con la stessa intensità, diversi territori, classi sociali e gradi d’istruzione, in tutto il Paese"

In questa finestra della “Domenica del Villaggio” che periodicamente apriamo sui talenti femminili dobbiamo dare spazio a un tema odioso, quello della violenza sulle donne. Pare impossibile che nel terzo millennio, in una terra di ospitalità e di giacimenti culturali come la Romagna, tocchi parlar di questo. Eppure è così, noi uomini non guariamo da un male che dovrebbe seppellirci dalla vergogna. La cronaca dei giornali è piena della nostra vigliacca, efferatezza. Questa settimana ne parliamo, per capire lo stato dell’arte (se di arte, e non di infamia, si può parlare), con  Nadia Somma, che di questa faccenda molto sa e, soprattutto, che, nella pratica, molto fa per aiutare donne in difficoltà.

Nadia, dopo la laurea in lettere, collaborò alla cronaca giudiziaria dell’ultimo giornale diritto da Indro Montanelli, la “Voce”, affiancando alla attività giornalistica la passione civile e politica. La questione femminile e, in particolare, quella della difesa delle donne da soprusi e violenza, è stata la sua bussola. Conobbe a Ravenna  l’esperienza di “”Linea Rosa”, oggi presieduta da Alessandra Bagnara, ove partecipò a corsi di formazione. Fu poi socia fondatrice di Demetra Donna, associazione lughese che si occupa, tra l’altro, di protezione delle donne anche grazie alla gestione di una casa rifugio a indirizzo segreto. Dal 2012 Nadia cura, sul tema, anche un blog molto seguito e costantemente rilanciato da “Il fatto quotidiano”. 

L’ho sentita al telefono qualche giorno fa per questa conversazione, che è risultata molto utile a me. Spero lo sia altrettanto per i lettori.

Nadia, in quanto a violenza sulle donne la  Romagna è specchio del Paese?
Direi di si. Il fenomeno è diffuso in modo trasversale e riguarda, più o meno con la stessa intensità, diversi territori, classi sociali e gradi d’istruzione, in tutto il Paese. Va detto, però, in positivo  che l’Emilia Romagna è la regione con il maggior numero di centri anti violenza attivi, 15. Per fare un paragone, in Molise ce n’è uno solo, in Calabria tre, in Valle d’Aosta uno. 

Numeri e sociologia ci dicono qualcosa?
Non molto. Certo, le condizioni socio economiche degli autori di atti scellerati possono incidere ma a fare la differenza sono i modelli culturali, a cominciare da quello familiare. Conta soprattutto il tipo di affettività che gli uomini, fin da bambini, hanno ricevuto. Ti faccio un esempio: se un bambino ha assistito ad atti di violenza sulla madre è possibile, se non probabile, che tenda, da adulto, a ripeterli sulla compagna.

Esistono studi, in materia?
Certamente. Gli psicologi, tendenzialmente, si concentrano sulla esperienza umana ed affettiva di chi compie violenza, i sociologi meno.  Generalmente, l’approccio dei centri anti violenza è rivolto a considerazioni di tipo culturale:  sosteniamo che le disparità di condizioni in cui vivono le donne, fin da bambine, costituiscono il terreno di coltura della violenza.

Disparità innegabile, anche in aree evolute come la nostra. A tuo giudizio tende a diventare meno netta?
Direi di no. Ci sono studi recenti, svolti anche in contesti ad elevata cultura come quello degli studenti universitari, ove gli stereotipi perdurano: la responsabilità della rottura di una coppia viene attribuita alle donne, i partner maschi pretendono di condizionarne abitudini, amicizie, abbigliamento. L’azione di controllo sulle donne è costante e, quando s’interrompe o rischia d’interrompersi, nascono da parte degli uomini reazioni intimidatorie e violente.

Le ragazze permettono quel tipo di controllo?
Si, anche se può apparire sorprendente. Forse, qualcuno sostiene, rimane viva la massima di Molière: “la più grande aspirazione delle donne è ispirare amore”. Certe ragazze scambiano il controllo che viene esercitato nei loro confronti con l’amore, con l’interesse affettuoso alla loro persona. In un contesto del genere la gelosia viene dalle donne vista, inizialmente, come sentimento positivo. Tutto questo, ovviamente, non spiega e non giustifica la violenza dei maschi ma, se vogliamo parlare del fenomeno, anche questo dobbiamo dire.

Vi occupate anche di formazione alle adolescenti?
Lavoriamo nelle scuole medie assieme a reti associative come Sharazhade, Udi Massalombarda, Incontradonne, Il caffè delle ragazze, Cif, per sfatare stereotipi e pregiudizi nella Bassa Romagna. Realizziamo incontri molto seguiti, riteniamo siano utili.

Dal tentativo di esercitare il controllo psicologico sulla donna, come si arriva a picchiare o peggio? Cosa scatta?
Tieni presente che la violenza psicologica rappresenta il 70% del fenomeno di cui stiamo parlando. E che costituisce il presupposto della violenza fisica, anche nelle manifestazioni più gravi. La violenza, per quel tipo di uomo, diventa il modo per cercare di mantenere il controllo, a qualsiasi costo, quando le donne cominciano a dire di no a determinate cose. 

L’ordine dei giornalisti, nei corsi di formazione, c’insegna, infatti, a non parlare di raptus, riferendoci a uomini violenti, ma di perdita improvvisa del controllo.
E’ corretto. Parlare di raptus è improprio e manda segnali fuorvianti. Gli uomini diventano violenti, nella maggior parte dei casi, quando perdono il controllo non di se stessi ma sulla donna. Questo occorre sapere: non è detto che fossero stati violenti in precedenza. Ti posso fare un paio di esempi, citando fatti tragici avvenuti poco distante da qui. 

Certo, sarà utile per capire. 
Il medico ravennate Cagnoni, cha ha ucciso a bastonate sua moglie Giulia Ballestri, solo in una occasione, in precedenza, aveva dato uno schiaffo a Giulia. Però su di lei pretendeva di esercitare un governo totale: lei non poteva andare al ristorante con le amiche, non poteva lavorare perché era Cagnoni, con la sua professione ben remunerata, a dover rappresentare il pilastro economico della famiglia. Giulia non poteva leggere libri o giornali a suo piacimento, era lui a scegliere per lei le letture. E cosi via. Quando lei ha detto basta a tutto ciò, Cagnoni è esploso con violenza inaudita. 

Terribile. L’altro esempio?
A Bagnacavallo Riccardo Pondi, che ha ucciso sua moglie, in precedenza non aveva compiuto atti di violenza; però la denigrava, non sopportava il suo successo nel lavoro, le controllava le spese. Non è detto, pertanto, che l’uccisione della compagna avvenga dopo una escalation di violenze fisiche. Torno sempre lì: certi uomini diventano criminali, fin anche al femminicidio, quando ritengono di non essere più dominanti nella coppia.

Chiarissimo. Aumentano i casi o aumentano le denunce?
I femminicidi in Italia sono numericamente stabili da molto tempo, ne avviene mediamente uno ogni tre giorni. Aumenta, invece, l’emersione del fenomeno. Se torniamo indietro nel tempo abbiamo una visione ancor più chiara. Negli anni cinquanta contavamo circa duecento donne uccise all’anno. 

Sono sorpreso: avveniva così in ragione di cosa?
La legislazione di allora contemplava il cosi detto delitto d’onore, una barbarie fortunatamente superata. Oggi emergono le denunce perché quello della violenza sulle donne è diventato un tema politico, dibattuto, conosciuto. Le donne trovano il coraggio di denunciare, contano su una società che sappia capirle e proteggerle.

Dicci qualcosa di quel che succede nel vostro centro di Demetra Donna.
Arrivano donne che direttamente, di persona, ci contattano. Noi non ci muoviamo su segnalazione di terze persone. Oppure ci occupiamo di donne che, conoscendo il nostro progetto H24, si sono rivolte al pronto soccorso o alla polizia e vengono indirizzate alla nostra struttura. 

Facile immaginare che per loro sia scelta traumatica.
Certo, arrivando da noi sanno di dover rinunciare al proprio mondo Succede quando  temono violenza nei confronti loro o dei figli, quando il livello di pericolo sale. Ormai le donne sanno quel che può accadere: un segnale, tra i tanti, è quando gli uomini mettono loro le mani al collo, significa che il livello si è alzato, che tutto può succedere. Quello è, spesso, il punto di non ritorno. Certo, la prima fase dopo la denuncia e il distacco, per le donne è difficile. A volte non possono neppure recarsi al lavoro perché l’uomo potrebbe facilmente rintracciarle.

Sono molte le donne che intraprendono questa strada?
In italia ci sono duecento centri in Italia, 85 fanno parte della Rete Dire.  In un anno 23000 donne vi sono rivolte.  Sono donne che hanno deciso di chiudere la propria relazione a causa di violenze psicologiche e fisiche subite. Nel 2021 le donne che, In Emilia Romagna, si sono rivolte a un centro anti violenza sono state 4934, 320 sono state accolte in una casa-rifugio segreta e protetta.

Di cosa e di chi finisce per fidarsi una donna maltrattata?
Ha subito un trauma enorme, che fatica a rivelare a chi che sia ed è quello il momento più pericoloso. A volte non ha neppure l’appoggio dei familiari, che preferirebbero che non denunciasse il marito-compagno. Serve una persona amica che l’ascolti e che non minimizzi il dramma che la donna sta vivendo né il pericolo che corre. A volte le stesse donne maltrattate tendono a minimizzare, sperano che la situazione in qualche modo si risolva. Ma nella maggior parte dei casi è una speranza vana.

Chi decide di uscire di casa, ha un qualche programma in testa?
All’inizio la paura supera qualsiasi ipotesi di futuro. Non nascondiamocelo,  è un percorso lungo e doloroso. Poi, superata la fase iniziale, quelle donne cambiano in meglio, quasi rinascono. Ricordo una donna che era dovuta andare lontano, la ritrovai in tribunale, ove mi trovavo per una testimonianza: non la riconoscevo, era più bella, serena. Un tempo era stata trasfigurata dalla ossessione e io la ricordavo a quel modo.

Qualcuno dice che nei vostri centri, si coltiva femminismo e avversione per gli uomini.
Lo so, ma è un fraintendimento della realtà. Possono esistere donne, femministe o no, che hanno avversione per gli uomini. Ma da parte nostra la critica non è agli uomini ma una gestione distorta del potere. Un sistema di violenza che uccide anche uomini, per questioni di potere. Il pensiero singolo di una donna, che può esistere, non fa statistica. Il pensiero femminista, globalmente, è invece una critica a un sistemo di potere. Anche le donne frequentemente esercitano violenza, se non fisica, di natura morale, ad esempio attraverso giudizi espressi nei confronti di altre donne.

Quando leggo o sento di femminicidi, spesso, come tanti, invoco a voce alta che gli uccisori siano messi al rogo. E’ un sentimento che agita anche voi?
La tentazione della soluzione violenta, in grado di costituire esempio, è recondita in tutti. Ma affermerebbe ciò che si vuole contrastare. Serve, invece, giustizia e il riconoscimento sociale e giuridico della violenza perpetrata e subita. Alle vittime, e anche a chi esercita violenza, serve capire con chiarezza assoluta da che parte stanno la società e la giustizia: si guarisce meglio. 

Cosa occorre fare?
Finanziare di più i centri anti violenza. Aprire un posto letto, sicuro e segreto, per donne maltrattate, ogni centomila abitanti, come peraltro indica l’Europa. Fare attività di formazione rivolta a magistrati e psicologici. Creare condizioni di parità effettiva, anche economica, tra uomo e donna: se no una donna come fa a lasciare un violento? 

Siamo su quella strada?
No. In Italia tutto, su questo fronte, invece che migliorare, peggiora. Ci si muove su onde emotive, puntando su risposte securitarie. Serve, invece, quel ti ho appena descritto.

Ringrazio Nadia Somma. Buona domenica, alla prossima. 

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