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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

La guerra è dolore: i fatti strazianti che a Polenta hanno accompagnato Guido e Fernanda

Bandi racconta i fatti strazianti avvenuti a Polenta di Bertinoro nel 1944, durante il passaggio del fronte bellico in Romagna

Non l’avremmo creduto possibile ma ci stiamo abituando a parlare di guerra. Mi è capitato di farlo anche con il mio amico Loris Sarti, un tempo camionista che da qualche anno gestisce l’edicola/libreria di Fratta Terme. Al termine di una delle nostre conversazioni mi ha regalato un prezioso libricino che, nel 2015, dette alle stampe Giuseppe Bandi, un falegname dotato di sicure capacità narrative. Bandi, in una ottantina di pagine scritte con partecipazione emotiva e con prosa tutt’altro che dilettantesca, racconta i fatti strazianti avvenuti a Polenta di Bertinoro nel 1944, durante il passaggio del fronte bellico in Romagna. Avvenimenti di cui Bandi, allora diciassettenne, fu testimone e che, per molteplici ragioni, ebbero modesta risonanza fuori dall’ambito locale. Prima che Loris me lo mostrasse non sapevo del libro di Bandi, conoscevo però quegli avvenimenti, per ragioni che dirò.

In apertura del libro, intitolato, “I segreti del cielo”, Bandi spiega che, a partire dalla estate del 1944 e per un periodo prolungato, un plotone dell’esercito tedesco mantenne il possesso delle alture che collegano Polenta alla vicina Collinello e lì piazzò un potente cannone, in grado di tenere sotto minaccia la pianura. 

Il luogo scelto dagli occupanti era effettivamente strategico: martedì scorso sono stato dove il cannone era situato, sulla strada di crinale che ancor oggi collega i due minuscoli borghi. Da quel punto si scorgono nitidamente il mare fino a Rimini, il porto di Ravenna, il grattacielo di Cesenatico, la verde distesa faentina. Mentre mi trovavo lì m’è passato per la testa, con un brivido, che, considerando la gittata di quel cannone, un artigliere tedesco, nel 1944, avrebbe potuto, per ordine ricevuto o solo per criminale capriccio, con un colpo sparato con precisione, violare tesori come la Biblioteca Malatestiana a Cesena o l’Abbazia di San Mercuriale a Forlì.  A non più di cento metri di distanza da quel cannone si trovava, e si trova, inoltre, la splendida Pieve di San Donato, eretta prima dell’anno Mille. Nella cui cripta, secondo Giosuè Carducci, premio Nobel per la letteratura, pregò Dante Alighieri, padre della nostra lingua e della cultura universale. In tempo di guerra, questa è la dolorosa questione, millenni di sapere faticosamente accumulati possono essere spazzati da un banale colpo cannone. Oltre alle vite, alla dignità, alle speranze degli esseri umani.

Negli anni Quaranta quelle erano, riferisce Bandi, colline povere. Abitate da operai agricoli, da contadini che lavoravano lembi di terra scoscesa, da minatori che estraevano faticosamente zolfo nella vicina Formignano. Vivere a Polenta e Collinello era sempre stato difficile; in tempo di guerra e di occupazione tedesca lo era molto di più. Era complicato garantirsi un frugale pasto al giorno, in quel periodo. Ci si arrangiava, ci si aiutava una famiglia con l’altra, anche nascondendo un grumo di grano all’interno di qualche mattone incassato in una parete per evitare che i tedeschi lo facessero proprio. I militari tedeschi, nel racconto di Bandi, appaiono duri, sbrigativi, talvolta spietati, ma d’abitudine non irrispettosi della popolazione.

Con qualche brutale eccezione. Come quella costituita da un greve maresciallo che, in preda all’alcol, entrò nel piccolo laboratorio di sartoria di Guido Garavini e di sua moglie Fernanda, situato a qualche decina di metri dalla storica Pieve, con l’intenzione dichiarata di abusare di alcune giovani lavoranti. Bandi si trovava all’interno del laboratorio, quel giorno: descrive la furia del tedesco, che esibiva minacciosamente la pistola, e l’inattesa reazione di Garavini, che impugnò le forbici da sarto, pronto a impedire lo stupro a rischio della propria vita. Fortunatamente, il militare non trovò le ragazze, che s’erano frettolosamente ma abilmente nascoste in una stanza attigua, e, imprecando, se ne andò. Concedendo ai presenti insperato sollievo.  

La tragedia, indicibile, avvenne qualche tempo dopo. Andandosene precipitosamente per l’incalzare delle truppe alleate, i tedeschi collocarono, credendo di non essere visti, una mina anticarro sotto la strada che costeggia la Pieve. Al proprio arrivo i soldati alleati, avvertiti dagli abitanti, dissotterrarono la mina e, per toglierla dalla strada, l’appoggiarono, senza disinnescarla, nei pressi della canonica. Attorno all’ordigno, prudentemente, posero del filo spinato; poi lasciarono la zona, contando sul previsto arrivo di una squadra di artificieri che si sarebbe occupata della questione. Ma, nel confuso movimento di truppe, e nella concitazione di giorni in cui la storia accelerò bruscamente il proprio passo, a Polenta di artificieri non ne arrivarono. 

Fu così che due uomini del luogo, che erano stati in trincea durante la Prima guerra mondiale, convinti di far bene, per togliere di mezzo l’incombente pericolo si decisero a far saltare la mina, contando sulle proprie conoscenze in fatto di armamenti. Non sapevano, però, che la mina, modello innovativo per l’epoca, non aveva una sola ma due cariche, la seconda delle quali, terminato il loro intervento, rimase inesplosa. A Polenta e Collinello tutti s’erano convinti, dopo la prima esplosione, ottenuta dai due volontari, che l’ordigno fosse ormai inoffensivo. Era il due dicembre del 1944: cinque bambini del luogo, sfuggiti alla vista dei genitori, si misero a giocare con la mina erroneamente considerata innocua. Aveva quattro anni Bruno Bandi, fratellino dell’autore del libro. Ne aveva cinque Clede Garavini, nove suo fratello Galeazzo, erano figli di Guido il sarto e di Fernanda. Ne aveva undici Romano Gallina, tredici sua sorella Marcella. Nessuno dei cinque sopravvisse allo scoppio della mina, poco rimase dei loro corpicini.

È inutile provare qui a descrivere lo strazio delle famiglie. Serve solo pregare, come fanno tutti coloro che, all’interno del cimitero di Polenta, s’imbattono nella minuscola lapide che ricorda quelle brevissime esistenze. Non ho conosciuto la famiglia dei Bandi, neppure quella dei Gallina. Ho invece frequentato quella dei Garavini, posso dunque riferire qualcosa di loro. 

Fernanda e Guido trovarono, chi sa dove, forse nella Fede, forse nella forza misteriosa che ci guida talvolta oltre le Colonne d’Ercole, l’energia per andare avanti. Galeazzo e Clede, i bambini volati in cielo, erano gli unici loro figli. Ne misero al mondo altri quattro. Il destino volle che fossero ragazzi di buon carattere e di mente brillante. Clede, la maggiore, è stata docente universitaria a Bologna. Galeazzo, psicologo, ha guidato i servizi sociali della Ausl forlivese. Enzo ha insegnato matematica in diversi istituti romagnoli. Pia, la piccolina, è medico a Meldola. Galeazzo è marito di mia sorella Laura, ecco perché sapevo di quei drammatici avvenimenti. 

Babbo Guido Garavini, il sarto, lo ricordo mite, sorridente, rispettoso di chiunque avesse di fronte. A fatica lo riconosco nell’uomo pronto ad uccidere lo stupratore, descritto da Bandi. Ma, quando la nostra famiglia viene aggredita, chi può sapere cosa potremmo fare per difenderla? Mamma Fernanda, saggia, ospitale, energica, era il riferimento di figli, nipoti e di chiunque capitasse in casa. Sono stato più volte nella loro abitazione, con a piano terra la piccola sartoria: regnavano buon senso, affetto, allegria. Fernanda e Guido non accettarono d’essere annichiliti dal dolore. Pochissimi li sentirono parlare della tragedia. Eppure, mio cognato Galeazzo mi ha spiegato che i suoi genitori ogni giorno si scambiavano ricordi e sensazioni riferendosi, a bassa voce, “ai bambini”. I loro due angeli. Guido li ha raggiunti nel 1990, Fernanda nel 2000. Credo che, dal 1944 in poi, non si siano mai mossi dalla loro casa di Polenta. Come tanti altri genitori romagnoli, nel dopo guerra hanno visto i loro figli prendere strade, intraprendere carriere. Ma Guido e Fernanda non hanno mai saputo cosa fosse una vacanza, un viaggio, una pur breve lontananza. Sono rimasti costantemente lì, dove i primi due bambini avevano vissuto. Era quello il luogo in cui sentivano di dover stare.

Questo successe a Polenta. Era tempo di guerra, quella cosa che chi è nato dagli anni Cinquanta in poi considera un passato destinato a non tornare. Siamo fortunati, continueremo ad esserlo. Godiamoci la nostra terra: in questi giorni di festa fate un salto a Polenta. Osservate la natura, la Pieve, i vitigni, gli oliveti, le case riadattate, i tornanti affollati di ciclisti, i sentieri percorsi dai camminatori. Magari portate un piccolo binocolo e scrutate, da lassù, il panorama che si apre oltre la striscia della via Emilia, la strada che il console di Roma Emilio Lepido, partendo da Rimini, cominciò ordinatamente a tracciare nell’anno 187, attivando una civiltà nuova e diversificata. Potrete scorgere la Romagna intera, i luoghi di un progresso maiinterrotto. Mentre respirate l’aria frizzante della collina, abbracciate chi avete vicino, celebrate la buona sorte di vivere in questa magnifica fetta di mondo.

Buona domenica, alla prossima.

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