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Mollo tutto e vado via

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A cura di Michelangelo Pasini

Disavventure in viaggio: nuotare in un lago cambogiano

L'attraversata del Tonlé Sap, dal sud al nord della Cambogia, regala emozioni e panorami irripetibili... ma voi fareste il bagno in un lago che sembra nascondere ogni tipo di animale?

Una delle esperienze più affascinanti che possiate fare durante un viaggio in Cambogia è attraversare il paese su una battello che naviga lungo il lago Tonlè Sap: non solo perché godrete di paesaggi da film, ma anche perché ancora oggi la vita su quelle acque non è molto diversa da quella di un centinaio di anni fa; tutto scorre lentamente, al ritmo della pesca e delle lunghe camminate nella giungla che gli abitanti sono costretti a fare per spostarsi da un villaggio all'altro. Il fiume fa paura: per grandezza, larghezza, ma soprattutto perchè non sappiamo cosa possano nascondere le sue acque torbide. Cela mostri con cui non vorremmo avere a che fare, soprattutto con la nostra debole costituzione da occidentali. In ogni caso, finchè siamo su una barca non dobbiamo temere niente.

Attenzione però, in Cambogia tutto può cambiare in un attimo.

Ma andiamo con ordine.

Leggiamo sulla guida che l'attraversata può durare dalle 6 alle 12 ore. Ma come è possibile? Perchè una differenza tanto grande? Con questi interrogativi partiamo alla mattina molto presto: sul battello con noi ci sono in totale una cinquantina di persone, equamente divise tra locali che si spostano da un posto all'altro carichi di ogni tipo di merci e alcuni turisti eccitati per l'avventura che li aspetta. Passando per le finestre (vi aspettavate una comoda scaletta?) ci appostiamo sul tetto, per godere meglio della vista dei villaggi galleggiati che si alternano senza soluzione di continuità  ed evitare i fastidiosi fumi di scarico dell'imbarcazione, con la prospettiva di goderci un paio di birre in totale relax.

A poco più di un'ora dalla partenza la nostra barca si incaglia nella vegetazione che sporge dalle rive del fiume: nessun problema, nel giro di poche decine di minuti attraverso l'uso di lunghi pali di legno il personale riesce a disincagliare la barca. Il viaggio procede tra chiacchiere e condivisione di racconti di viaggio con gli altri turisti che come noi vanno a zonzo per il sud-est asiatico. Ma il guaio successivo non si fa attendere troppo: in una zona di secca, dove l'acqua è troppo bassa, la barca si insabbia. Fermi altri trenta minuti, ma poi ripartiamo come se nulla fosse. Quando però qualche ora dopo siamo costretti nuovamente a fermarci perchè si rompe il timone e qualche fortunato è costretto ad aggiustarlo tra un'apnea e l'altra immergendosi nelle per niente ospitali acque marroni, iniziamo a capire il perchè di quell'avvertimento in merito al tempo di attraversata, dalle 6 alle 12 ore. Qualche colpo di martello dopo salpiamo nuovamente, sicuri che i guai per quel giorno sarebbero finiti lì.

Non potevamo essere più lontani dalla verità .

Andavamo finalmente a tutta velocità per recuperare il tempo perduto quando improvvisamente l'imbarcazione si incaglia nuovamente e l'urto crea scompiglio sul tetto. Il problema questa volta appare immediatamente più importante rispetto alle precedenti. Tutti i tentativi di liberare la barca attraverso l'uso dei pali di legno che prima ci avevano aiutati sembrano vani; siamo fermi in un punto dove un fiume affluente del Tonlè Sap fa una curva a gomito e le barche che arrivano sfrecciando da dietro si accorgono di noi all'ultimo momento: ad ogni minuto che passiamo incagliati aumentano le possibilità di una collisione. Il personale appare tutt'altro che tranquillo, questa volta sembra aver finito le idee per liberarci dalle liane acquatiche che bloccano il nostro mezzo: la barca è troppo pesante perchè un esiguo pugno di persone possa riuscire a spingerla così forte da superare gli ostacoli sul fondale che la tengono ferma. L'idea successiva viene da sé: tutti gli uomini devono scendere in acqua (che arriva fino alle spalle, circa) per spingere (e alleggerirla) mentre le donne devono dondolare appese alle finestre del battello, al di fuori dalla barca, creando un movimento ondeggiante da un lato all'altro dell'imbarcazione che aiuti le operazioni di sbrigliamento.

Io, Michelangelo, e l'unico altro (maschio) italiano che viaggiava con noi ci guardiamo con la disperazione negli occhi, impegnati a cercare una scusa per non fare il bagno in un fiume che sembrava ospitare ogni tipo di animale. Quando alcuni dei più temerari (nativi cambogiani, seguiti da tedeschi, australiani e qualche americano fisicato) che si sono buttati per primi tornano a bordo con decine di sanguisughe giganti che gli pascolano su tutto il corpo, morsi sospetti e tagli sanguinanti, sono sicuro che dentro quel fiume non ci metterò piede. Intanto il mio compare italiano indica all'equipaggio che gli chiede di farsi un bel bagno una minuscola ferita incerottata in una gamba come a dire, non posso bagnarla, si infetterebbe. Io vado nel panico, non ho una scusa pronta e ogni tipo di animale sembra far capolino dal pelo dell'acqua torbida in cui sto per buttarmi. Cosa può significare per un ipocondriaco come me gettarsi in un fiume del genere? Mi gioco quindi l'ultima carta: ho una macchina fotografica al collo, "sono un giornalista italiano, devo scattare qualche fotografia per documentare l'accaduto". Non so come o perchè, ma acconsentono.

Sono salvo e grazie all'aiuto di coraggiosi malcapitati che risalgono sul battello, feriti e certamente portatori di future infezioni tropicali, il viaggio riparte in meno di un'ora.

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