Alluvione 6 mesi dopo, i geologi: "Non continuare a fare argini sempre più alti, ma dare ampi spazi al fiume"
"Intervenire adeguatamente vorrebbe dire interferire con il tessuto antropico estremamente sviluppato, intervenire sull’economia, sugli interessi dei singoli e dei gruppi, sulle comunità"
“Occorre ridare spazio ai fiumi in modo significativo e quindi concepire un sistema di difesa diverso, limitare il sistema arginale in altezza per evitare gravi danni da rotture, integrare e modificare l’uso del suolo e attività produttive in ampi spazi di destinazione fluviale”: a sei mesi dall'alluvione che ha travolto la Romagna a chiedere un approccio diverso da quello finora seguito - vale a dire “chiudere” i fiumi entro argini – è l'ordine dei Geologi, per bocca di Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia-Romagna.
A sei mesi dall’alluvione di maggio che considerazioni possiamo trarre? “Al netto dei ristori previsti dal Governo, siamo in grado di modificare il nostro comportamento, le nostre abitudini? Abbiamo ormai capito che riuscire a pianificare il nostro territorio è un compito assai complesso – continua Antolini - , su un territorio molto vasto e diversificato; servono studi, indagini, modellazioni, interventi con opere, rinaturalizzazioni, e alla fine del percorso ci accorgeremo che non saremo riusciti a raggiungere, in tempi brevi, gli obiettivi desiderati. La manutenzione e la ricostruzione periodica delle opere richiedono risorse ingentissime, ricordiamo che in Emilia-Romagna abbiamo 3.000 km di arginature”.
Radicale l'alternativa proposta da Antolini, che è quella di non fondarsi più solo “sul cosiddetto approccio ingegneristico, utilizzato in tutte le Regioni indipendentemente dal colore politico, che intendeva gestire il territorio attraverso arginature, difese spondali, briglie, opere in genere, che ci ha portato ad un sistema della gestione fluviale e territoriale costoso e inadeguato. Continuare su questa strada guardando gli eventi che si susseguono, gli ultimi in Toscana, Lombardia, Veneto, Friuli, non ci rassicura per nulla. Se non siamo in grado di fronteggiare gli attuali problemi, l’attuale rischio, come potremo fronteggiare i cambiamenti climatici che i meteorologi ci prospettano?”
Il presidente dell'ordine chiama quindi alla responsabilità collettiva: “Nessun politico può permettersi di dire 'Non è colpa mia', nessun cittadino che ha beneficiato del diffuso benessere può puntare il dito contro l’altro. Quello che attualmente si sta cercando di fare sono azioni che cercano di ridurre le fragilità, cercano di restaurare un territorio duramente colpito, ma lo si fa con la prospettiva di migliorare il sistema? La risposta è né sì, né no. Intervenire adeguatamente vorrebbe dire interferire con il tessuto antropico estremamente sviluppato, intervenire sull’economia, sugli interessi dei singoli e dei gruppi, sulle comunità, e sugli equilibri politici; occorre quindi cercare soluzioni per rompere il meno possibile il tessuto socioeconomico attuale”.
E conclude: “Dobbiamo però metterci in testa che anche le città dovranno essere modificate, pensare che l’acqua resti negli attuali alvei, che il nostro attuale sistema fluviale-torrentizio con le sue difese riuscirà a superare i prossimi eventi è una speranza che non possiamo permetterci. Dobbiamo imparare a vivere con un concetto, il rischio residuo, fino ad ora ignorato e cercare di ridurlo in tutti i modi. La sfida è appena iniziata speriamo di percorrere la strada giusta”.