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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronaca

Da Forlì agli Usa: “L’incontro con il professor Amadori mi ha cambiato la vita. Un uomo gentile e illuminato"

Dialogo tra il professor Muller Fabbri, direttore associato del Center for Cancer di Washington, e Giovanni Amadori, presidente dell’associazione “Dino Amadori”

Un incontro che cambia la vita e dà il là a una brillante carriera professionale negli Stati Uniti. Quello tra il professor Dino Amadori e un giovane allievo che, da quell’incontro, prenderà ispirazione e partirà alla volta degli Usa dove nel 2021 è stato nominato direttore associato del Center for Cancer and Immunity Research del Children's National hospital di Washington.

E proprio quell’incontro è l’occasione di un dialogo tra il professor Muller Fabbri, pioniere nel campo della ricerca biomolecolare per la lotta al tumore, e Giovanni Amadori, figlio del professore e presidente dell'associazione “Dino Amadori”. 

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Giovanni Amadori: Mio padre mi ha parlato della sua brillante storia professionale. Come vi siete conosciuti?
Muller Fabbri: "In occasione di un incontro per l’orientamento universitario rivolto agli studenti liceali di Forlì, era presente anche Patrizia Gentilini, che conosceva la mia vocazione orientata agli studi e alla ricerca oncologica. Fu lei che mi consigliò di parlare con il professor Amadori e quell’incontro per me ha rappresentato un sogno realizzato. Fin da piccolo, in casa, si è sempre parlato di ‘quel giovane medico’ straordinario che con doti quasi magiche riusciva, guardando le persone, a diagnosticare la malattia. L’immagine del professore mi ha ispirato fin da piccolo e ha influenzato le mie scelte, orientandomi verso gli studi e le scoperte di questa malattia che nessuno osava nominare, con diagnosi che spaesavano non solo chi ne era colpito, ma anche medici e ricercatori. La figura di Dino Amadori  mi veniva raccontata da mia madre e dalle zie, per loro era un giovane medico in grado di ridare speranza, ma anche la vita e la sopravvivenza a tante persone”.

Come è stato quell’incontro?
“Ricordo bene quando lo incontrai all’ospedale Pierantoni, nel suo studio. Ero di fronte a una persona gentile che mi mise a mio agio. Mi chiese che media avessi e mi invitò a concludere quanto prima gli studi e mi disse. Fai in fretta, mi disse, puoi prendere anche qualche voto sotto il trenta purché tu faccia in fretta e venga qui, ti aspetto. Dopo quell’incontro mi sono specializzato in Oncologia medica all’Università di Ferrara e sono entrato nel team di ricercatori e medici diretti e gestiti dal professor Amadori”.

Oggi lavora negli Stati Uniti, qual è stato il primo impatto?
“Fu traumatico. Ero un medico oncologo con un’esperienza esclusivamente clinica e provenivo da un’attività di reparto all’Hospice di Forlimpopoli. Mi sono trovato all’improvviso catapultato in un contesto medico scientifico completamente diverso: sono passato dalla cura dei malati terminali a un contesto che studia la terapia genica (la manipolazione del materiale genetico all'interno delle cellule per la cura di malattie come il tumore, ndr). L’esperienza a Forlì mi ha consentito un approfondimento a 360 gradi in campo oncologico,  dalla degenza al day Hospital oncologico fino all’Hospice, e oggi negli Usa sono entrato nel mondo della terapia genica e ricerca di base. Mi ritengo molto fortunato. Ho imparato rapidamente ho pubblicato le mie ricerche. Ricordo un aneddoto, sarei dovuto restare negli Usa per un anno, l’accordo con il professor Amadori era questo, e lui mi disse: fra un anno devi tornare se no mi arrabbio. Devi portare qui quello che hai imparato, io ti supporto e ti finanzio ma poi torni”.

Queste parole mi inducono a una riflessione: anche in questo caso mio padre si è rivelato illuminato e direi controcorrente, contrapponendosi alla attualissima “fuga di cervelli” di giovani ricercatori che si formano e studiano in Italia, per poi andare all’estero. Credo che lui abbia capito in tempi non sospetti che la rotta doveva essere invertita.
"Confermo, è proprio questo il punto.  Ma fu ancora più visionario. Aveva capito che non bisogna insistere necessariamente perché poi si ritorni, perché ben comprendeva le opportunità che un paese come gli Stati Uniti può offrire a un ricercatore in campo scientifico e mi disse: tu hai un’opportunità straordinaria che io non ho avuto e per questo motivo, quando si rese conto che negli Usa le cose per me stavano andando bene, non si ostinò nel farmi tornare. Non posso obbligarti a tornare, mi disse, iniziamo a collaborare insieme creiamo una rete, la tua carriera e il tuo laboratorio devono diventare un punto di forza anche per il mio Istituto”.

Ci sono altri episodi che la legano a quell’incontro? 
“Quando sarei dovuto tornare dagli Stati Uniti il professore parlò con il mio responsabile e gli disse di farmi finire le ricerche che avevo iniziato, spiegandogli che non avrebbe potuto supportarmi ulteriormente. Con la sua lungimiranza capì e cambiò visione e con l’idea  di ‘fare rete’ intuì che proprio da me poteva e doveva partire per dare nuove occasioni di carriera ad altri giovani ricercatori, dando loro opportunità in più presso il mio team. Fu una  grande intuizione”. 

Un tema che mi sta a cuore e che porto avanti con l’Associazione Dino Amadori riguarda la difficoltà nel reperire fondi per la ricerca in Italia. Come sono le cose negli Stati Uniti?
“Non sono più come qualche anno fa. La differenza è che lì c’è un forte supporto dai National Institutes of Health con le chiamate, almeno tre volte all’anno, per le borse di studio che supportano i progetti. In Italia invece la situazione non è definita e le chiamate per i fondi ministeriali sono senza certezze e con scadenze variabili. Negli Stati Uniti poi c’è anche il Dipartimento della Difesa e moltissime fondazioni che supportano la ricerca contro il cancro, in Italia invece poche fondazioni e pochissimi fondi. In Italia abbiamo un’ottima formazione, superiore agli Stati Uniti, ma le opportunità lavorative vengono date da altri paesi".

Mio padre è ricordato anche per la forte empatia e per il rapporto di confidenza e di reciproca fiducia che lo legava ai propri pazienti. Anteponeva sempre il rispetto della sua sfera emotiva nell’approccio clinico. Un rispetto che ha ispirato tutta la sua vita professionale. 
“Quando ero ancora in Italia e frequentavo la corsia di oncologia medica, una delle cose più importanti per me era fare attenzione a come il professor Amadori comunicava una diagnosi difficile al paziente. Un giorno è successa una cosa che mi ha illuminato. Accompagnava sempre con un contatto fisico e affettuoso il confronto con la paziente, non usava mai parole forti come ‘cancro’, ‘terminale’ o ‘metastasi’, e tuttavia non per questo non diceva la verità. Riusciva sempre a comunicare anche una finestra di speranza. Davanti alle sue parole il paziente capiva che la situazione era difficile ma trovava anche l’impulso per reagire e affrontare la situazione con la forza che gli veniva trasmessa. Questo è un approccio che non esiste negli Usa. Nella medicina anglosassone si comunicano percentuali e rischi statistici con freddezza e distacco. Penso che tutto ciò derivi dal sistema dalle assicurazioni per il quale i medici sono obbligati a parlare al paziente per prevenire cause, una sorta di consenso informato indiscriminato e crudele”.

Una differenza culturale, conclude Giovanni Amadori, in un contesto socio culturale sopraffatto dalla logica economica sistemica negli Usa che, almeno  sotto questo aspetto, hanno tutto da imparare da noi.

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