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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Giorgio Bocca a Forlì scriveva del "complesso del Duce"

Giorgio Bocca, decano del giornalismo italiano venuto a mancare proprio il giorno di Natale, aveva dedicato a Forlì, da cronista del "Giorno" di Italo Pietra, "un pezzo memorabile"

Forse non molti sanno che Giorgio Bocca, decano del giornalismo italiano venuto a mancare proprio il giorno di Natale, aveva dedicato a Forlì, da cronista del “Giorno” di Italo Pietra, “un pezzo memorabile, poi finito in quell’aurea silloge del boom che fu Miracolo all’italiana, edito nel ’62 dalle Edizioni dell’Avanti! con successo insperato (ne andarono bruciate quattro tirature in pochi mesi)”. E' il sindaco di Forlì, Roberto Balzani che ricorda la grande penna che scrisse della città.

“Bocca aveva mosso la sua inchiesta di Vigevano: voleva capire come fosse vissuto, in provincia, quel benessere che sembrava travolgere la vecchia Italia, e che, ai suoi occhi attenti, pareva uno strano miscuglio d’intraprendenza e di furbizia, di talento levantino per il “nero” e di autentica propensione all’innovazione. A marzo di quel 1962 arrivò a Forlì. E qui trovò il Complesso del dittatore. La città gli si parò di fronte ripiegata su stessa, ancora divisa fra un “neo fascismo da amici d’infanzia” e un “antifascismo più suscettibile del necessario””, ricorda Balzani.

“A Forlì – scriveva Bocca – ho trovato un romagnolismo mortificato dall’esperienza clamorosa, tragica, a volte comica, del più noto fra i romagnoli. Nel resto della regione a metterlo al tappeto ci ha pensato il crescente benessere. I portafogli pieni abbondano, ma il ‘sangue romagnolo’ è praticamente introvabile. I contadini di Predappio allevano polli in batteria e Romano suona il jazz e sposa la Scicolone”. E ancora: “se qui il ‘miracolo’ non si è visto o si è visto poco lo si deve al complesso del duce. Senza accollare al defunto una colpa che proprio non ha, ma tanto per ricordare ai vivi certe verità che non amano confessare”.

“Quali? La classe dirigente forlivese era vittima, dal ’45 in poi, del mito effimero della “piccola Roma”, che pure aveva funzionato, a livello simbolico, negli anni Trenta – continua Balzani -: così il palazzo di giustizia era ancora lì dal ’38, incompiuto; così le grandi arterie di comunicazione “evitavano” la città; così c’era l’aeroporto, ma il commercio estero non era certo rigoglioso come a Rimini o a Cesena. “Al ‘cittadone’ restavano una vita sonnolenta, i tre caffè sulla piazza grande per le eterne conferenze, i comunisti al Central Bar, i repubblicani al Flamigni, i fascisti alla Casa del caffè”: insomma, un quadro da periferia profondissima, con gli scherzi, gli atteggiamenti grotteschi, le caricature, la violenza raccontata ma per fortuna assai poco praticata. Un Amarcord prima di Amarcord”.

“Ma Bocca non aveva dubbi: anche a Forlì, prima o poi, il miracolo sarebbe arrivato. Dopo la Ravenna industriale, dopo la Rimini mecca del turismo, dopo la Cesena capitale dell’ortofrutta, anche la città vittima “di complessi duceschi” si sarebbe “avviata” a un “sicuro recupero economico”. In quale direzione, però, Bocca non lo diceva, tanto il quadro urbano gli pareva ancora indeterminato, intriso di tradizione e di passato. Non erano trascorsi molti anni, del resto, dal Viaggio in Italia di Guido Piovene: e il profilo della narrazione era all’incirca quello. Più stridente, semmai, risultava il contrasto fra la ricchezza privata, fra i consumi “affluenti”, da un lato, e le mentalità e i costumi del capoluogo amministrativo, dall’altro: un passaggio culturale che restava ancora da sciogliere, dopo aver fatto i conti con il duplice fantasma della “romagnolità” e del fascismo. Insomma, dobbiamo a questo grande giornalista un ritratto di Forlì a cavallo del centenario dell’Unità che vale come un dipinto, da appendere nel salotto buono insieme con quelli di Cederna, di Piovene e di poche altre penne indimenticabili. Teniamocelo caro”, conclude Balzani.
 

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