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Cultura

Forlì e la lobby culturale, 'Non c'è pluralità, sembra una dittatura'

Due professionisti della musica che, con la loro arte, hanno girato il mondo e che dal 2003 sono presenti sul territorio forlivese con la loro associazione 'Musicians' per promuovere la cultura musicale, testimoniano la difficoltà di fare cultura nel nostro territorio

Due professionisti della musica, due cantanti e musicisti che, con la loro arte, hanno girato il mondo dall’America all’Egitto, dal Giappone all’Europa e che dal 2003 sono presenti sul territorio forlivese con la loro associazione 'Musicians' per promuovere la cultura musicale. Stiamo parlando di Edoardo Viola, romano,  musicista e cantante professionista che ha al suo attivo grandiose collaborazioni con artisti del calibro di Stevie Wonder e Tina Turner ma anche gruppi italiani come Equipe84,Camaleonti, Banco, Patty Pravo, Dik Dik, Nomadi e molti altri.

Accanto a lui, compagna di vita e d’arte, Catia Giannantonio, cantante diplomata al Conservatorio che ha iniziato il suo mestiere a soli 15 anni formandosi in particolar modo sulla musica soul e jazz. Un curriculum da vera professionista della musica che l’ha vista protagonista sia in Italia che all’estero e che oggi, insieme a Edoardo, ha deciso di stabilizzarsi e lavorare nella sua terra, la Romagna.

La loro associazione organizza incontri, seminari, scambi culturali, corsi di musica e di canto e spettacoli di integrazione alla cultura musicale. Ma quanto spazio c’è a Forlì per la cultura? Sembra poco. Ne hanno parlato in un’intervista rilasciata al nostro quotidiano ForliToday.

Innanzitutto, quale significato date alla cultura e qual è il vostro scopo come associazione?

"Crediamo che la cultura non sia fatta soltanto dall’accademismo ma piuttosto da ciò che si conosce durante la propria vita, non si realizza solo con lo studio ma è dalle esperienze di vita che deriva l’arte. Per studiare ci vuole poco, nel momento in cui tu impari a scrivere puoi diventare uno che scrive ma è diverso dall’essere un poeta, uno scrittore, un saggista o un filosofo. Faccio il paragone con l’imparare a guidare: si possono imparare le tecniche ma guidare la macchina è un’altra storia. O ce l’ hai addosso o sei uno che mette la freccia ma al primo incrocio non sai che fare. Noi cerchiamo proprio di trasmettere cultura incominciando a sensibilizzare i giovani, a far vedere loro cos’è il bello. E’ fondamentale far conoscere i canoni di bellezza internazionali, ognuno si deve fare un’opinione su cos’è il bello, poi è libero di scegliere se lo gradisce o meno. Se ti faccio sentire Frank Sinatra e vedere la Gioconda, le statue del Canova o piazza San Pietro, nessuno può dire che sono brutte, quelle sono le immagini del bello poi da lì sta ad ognuno elaborarle e scegliere ciò che piace e che non piace".

Come pensate che sia il livello culturale trasmesso oggi?

"Musei, gallerie, sale da concerto, teatri non riescono più a dare un senso a una società come poteva accadere nel secolo scorso, i templi della cultura e dell’arte non mi pare abbiano più grande influenza sui nostri destini. Vorrei allora capire dove e come si formano i pensieri e le idee che costruiranno il senso del domani. Nell’insegnamento moderno manca un po’ la promozione della conoscenza dei canoni di bellezza, il farli vedere e sentire. Non bisogna soltanto farli studiare ma occorre emozionare i giovani e dar loro informazioni che aprono la mente in modo che ognuno possa incominciare ad avere opinioni di quello che sta vedendo o ascoltando. Dagli anni ’50 la promozione sociale culturale è stata soltanto un’industrializzazione della cultura: per esempio io posso dire di avere il pianoforte a coda a casa ma non sono capace di suonarlo, ho la piscina in villa ma non sono capace di nuotare, ho la macchina da 100mila euro ma non sono capace di guidare. Possedere le cose non vuol dire averne anche la conoscenza. Purtroppo la promozione culturale nel periodo del capitalismo avanzato è avere cose ma non saperle usare. Oggigiorno esiste solo l’industria culturale, è diventata un business. Un rapporto dell’Unesco, già nell’82, diceva che ‘si ha un’industria culturale quando beni e servizi culturali sono prodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e commerciali su larga scala in conformità di strategie basate su considerazioni politiche ed economiche piuttosto che su strategie concernenti lo sviluppo culturale’. Questo è quello che è rimasto oggi,  non c’è attenzione alla cultura, è tutta un’ operazione commerciale. Oggi la domanda da porsi è questa: 'Uno è bravo perché è famoso o è famoso perché è bravo?'."

A chi è affidata la promozione culturale?

"Qui entra in gioco l’importanza del ‘gioco dei ruoli’ che significa che ogni persona sta in quel posto perché gli compete. Purtroppo da quando la politica ha preso l’onere di fare cultura, non si è più capito che cosa significa questa parola. Come mai non sono più nate cantanti come Mina? Perché non c’è più cultura.  Uno che non viene cresciuto con i canoni della bellezza artistica, apprezza ciò che gli viene propinato ma non conosce la vera bellezza. Questo è l’obiettivo della politica perché conoscere la bellezza ti apre la mente e ti fa pensare e se cominci a pensare inizi anche ad accorgerti che qualcosa non funziona. E allora ci propongono tv spazzatura, dal Grande Fratello alla De Filippi a  X Factor o altri programmi di musica sconcertanti. Ci lavano il cervello, siamo delle macchine, facciamo tutti le stesse cose alla stessa ora e questo è importante per la politica, questo è il controllo e chiaramente si sa che la cultura è libertà e non piace, specie in questo periodo che si pensa di essere liberi e invece stiamo vivendo una dittatura che il fascismo in confronto era rosa. Il giornalista non può scrivere, l’artista non si può esibire a meno che non si vada a favore del sistema".

Nel forlivese, territorio in cui operate, che giudizio date sulla promozione culturale trasmessa?

"In questa zona ma anche in Emilia Romagna in generale, fino alla fine degli anni ’80 è stata quasi una manna, ci si rapportava con delle gestioni che qualcosa a livello di cultura, nello specifico musicale, capivano. Dall’inizio degli anni ’90 il decadimento è stato abissale, un baratro incredibile. Un tempo noi musicisti per andare sul palco dovevamo avere tutte le doti possibili e innanzitutto doveva essere il tuo unico lavoro. Oggi questo lavoro lo fa tanta gente incompetente. Vediamo arrivare a Forlì gente come Nevruz ad esempio. Luoghi che un tempo ospitavano concerti di buon livello oggi non si interessano più della qualità ma mettono sul palco chiunque. Ognuno deve avere il suo spazio giustamente, ma nei luoghi e nei tempi idonei. Abbiamo visto tanta gente improvvisarsi far cultura, gente che dal fare il meccanico, decide di aprire una pizzeria poi apre un pub e infine pretende di parlare di musica. E la stessa cosa si riflette nella politicaQui a Forlì abbiamo gente che sta negli assessorati che non ha le giuste competenze e per averla devono chiamare i consulenti, pagandoli migliaia di euro e che spesso vengono da fuori mentre invece è necessario conoscere il territorio. Inoltre la grande mancanza di Forlì è quella di non avere un centro storico che produce cultura. Mancano un vero teatro, il Diego Fabbri è un ex cinema, e non c’è un locale che possa accogliere concerti. Non esiste un posto di riferimento in cui possono andare i ventenni e trentenni e uno dedicato ai più adulti. Alle 20 in centro non sai più dove andare, giri per una città poco illuminata, dove non c’è un locale in cui ascoltare buona musica".

Come descrivereste lo scenario sul quale si proietta la cultura, in particolar modo la musica,  a Forlì?

"Nel forlivese è molto difficile promuovere una cultura che sia diversa da quella decisa dal ‘sistema’. Abbiamo notato, sulla nostra pelle, che chi ha spazio sono sempre gli stessi e spesso non si tratta di professionisti. La possibilità di organizzare eventi culturali viene data sempre agli stessi soggetti. Se vuoi fare qualcosa devi pagare e basta. Mancano le pluralità e la scelta sulla qualità delle pluralità. Su questo territorio non si è ascoltati, sembra di essere in una dittatura. Nessuno ti coinvolge se non entri a far parte del sistema. Non riusciamo ad avere visibilità per mancanza di bandiera, non per demerito ma perché non siamo legati agli stilemi che vogliono gli altri".

Avete quindi trovato una chiusura da parte di chi gestisce l’ambito culturale nel nostro territorio?

"Abbiamo degli spettacoli che varrebbero la pena di essere visti, che in altri contesti sono stati molto apprezzati. Per questo ci siamo rapportati con moltissimi assessori, abbiamo partecipato a bandi, abbiamo chiesto contributi ma non abbiamo mai ottenuto molto di più che una serata nella rassegna estiva in piazzetta della Misura. Chi ha il compito di rapportarsi con le associazioni culturali, dagli assessori al Fondo per la Cultura, si nega. Qualcosa non funziona. Sembra che a Forlì o sei della parrocchia o sei fuori dal palazzo, ti eliminano perché non sei loro ‘servitore’ o perché hai osato fare un’associazione che la dica diversamente da loro. L' ignoranza dovrebbe escludere dalla partecipazione".

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