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Addio a Zanniboni, il discorso del sindaco Roberto Balzani

L'intervento del sindaco di Forlì alla cerimonia solenne in Salone comunale per l'estremo saluto al primo cittadino Giorgio Zanniboni

Caro Giorgio,
eccoti qua. Anche tu sei tornato a casa, come Angelo alcuni mesi fa: sei tornato nel luogo che ha segnato la tua esistenza forse più profondamente. Tu e Angelo avete amministrato nel complesso per vent’anni: un’esperienza decisamente straordinaria, coincidente con momenti alti di governo della città. Certo, la congiuntura economica, pur fra salite e discese (in discesa in particolare il settennio 1974-80, quando il prezzo del petrolio prese a galoppare), era diversa e i processi di decentramento amministrativo, inaugurati dalla regionalizzazione del ‘70, tendevano a rafforzare ruoli e risorse degli enti locali. In un tale contesto, voi foste in grado di approfittare delle occasioni offerte dalla nuova fase, realizzando cose che sono ancora lì, patrimonio non solo nostro, ma dell’intera Romagna.

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Sì, Giorgio, perché l’Acquedotto di Romagna, con la sua grande diga che tu inaugurasti, è il frutto in primo luogo di un’intuizione della classe dirigente della nostra città: dal Sindaco Icilio Missiroli, che per primo lo immaginò negli anni del boom, ad Angelo Satanassi e a te, che ne foste i materiali realizzatori, spingendo gli altri centri regionali a forme di cooperazione e di concordia che oggi mi sembrano incredibilmente remote. E che dire dell’Università, anch’essa frutto di tante energie confluenti, dal sen. Melandri al Comune che tu reggevi, premessa e anticipazione di un insediamento multicampus che è oggi, giustamente, un vanto della nostra comunità?
Sono pezzi importanti della struttura profonda della Forlì dell’ultimo quarto di secolo, elementi ormai basilari del nostro “sviluppo”. La sete della Romagna, cioè il limite storico posto dalla natura alla crescita del territorio, sofferto e inutilmente studiato dalla metà dell’Ottocento, finalmente risolto!

E, d’altro canto, l’idea d’investire in un terziario avanzato – si direbbe con linguaggio moderno -, che non apparteneva ai ritmi sonnolenti e rurali del Cittadone, ma che ha mutato, di fatto, la natura del centro urbano e del suo insediamento, imprimendovi una spinta la cui gittata è visibile adesso, a vent’anni e passa di distanza. E tutto questo, avvitato sul tronco di un welfare poderoso e partecipato, vanto dei primi anni dell’amministrazione di Angelo, via via perfezionato e arricchito nel tempo.

Caro Giorgio, dicono che avevi un carattere non proprio facile e che sei stato grande nei successi ma anche negli errori, perché ti sei sempre ficcato in entrambi a testa bassa, con determinazione e caparbietà. Confesso che, per la natura della relazione che è esistita fra noi, io ho visto piuttosto in te un uomo libero, indipendente, cresciuto con una cultura politica esplicitamente e orgogliosamente di parte, e tuttavia straordinariamente pragmatico nell’organizzare un pensiero di riforme.

Una persona concreta, aliena da astrattezze ideologiche, da rigidità stereotipate, da luoghi comuni preconfezionati: uno che guardava un problema, lo pesava, lo studiava, lo approfondiva e poi diceva la sua. Con autorevolezza. Questo tuo modo di ragionare a me è sempre piaciuto: lo trovavo conforme ad un senso interno empirico che tendeva ad anteporre il costruibile e il realizzabile al freddo rigore della dialettica materialistica da manuale, senza per questo rinunciare ad un’idea radicale di giustizia. Che tu avevi maturato da ragazzo, nell’esperienza operaia, nel contatto non virtuale col popolo lavoratore, negli anni duri ma esaltanti del dopoguerra.

Caro Giorgio, hanno detto di te che eri un traditore, perché, a un certo punto, hai abbandonato la forma partito alla quale appartenevi, e della quale eri stato un autorevole dirigente, per tentare una strada nuova, costruita su un’immagine della Romagna e del suo potenziale sviluppo. Era una strada concretista e riformista, che ti è costata molto: ma che è stata il frutto, oltre che di scelte individuali, personali, anche della constatazione dell’esaurimento dei partiti tradizionali e delle loro dinamiche interne, sotto l’urgere, da un lato, di una società in rapida evoluzione, non più segnata dalle consuete fratture di classe, religiose, o culturali; dall’altro, dell’esaurimento fisico della grande generazione bellica e post-bellica: quella che ancora ci guida nei mari tempestosi in cui cerchiamo di navigare, e che s’incarna in Giorgio Napolitano, espressione estrema, liminare dell’eredità della Costituente.

Caro Giorgio, tante cose in tanti, qui e in Consiglio Comunale non potremo mai dimenticare. Marco Di Maio non potrà mai dimenticare il suo affacciarsi alla politica sotto il tuo sguardo di formatore e di ragionatore. Molti fra i miei assessori non potranno dimenticare tu che venivi con i tuoi studi in Comune, e che ci raccontavi un punto di vista non banale sulle società partecipate, che ci è stato prezioso per impostare battaglie durissime, condotte dall’amministrazione di Forlì con sorprendente (per gli altri) chiarezza e con ferma, imprevista determinazione. Battaglie alle quali hai guardato con benevolenza, sapendo che trovavano applicazione, finalmente, idee e intuizioni che ti eri portato dentro per anni.

“Vi aiuto conoscendo quale sarà il mio destino”, ci avevi detto con la consueta lucidità, senza tacer nulla della tua malattia, quasi a sottolineare la totale gratuità del tuo contributo: un patrimonio ingente di riflessioni alla ricerca di eredi. Quanto a me, non potrò mai dimenticare l’avvallo, tutt’altro che scontato, offerto alla mia candidatura e i tanti consigli, e i tanti colloqui, e le tante narrazioni precise, documentate, esatte nei dettagli e nei giudizi. Nessuno, lo confesso, fra i detentori di un sapere così profondo e intelligente circa le cose del Comune, si è mostrato, nei miei riguardi, così aperto e così disponibile.

Caro Giorgio, hai evitato, ad un parvenu come me, errori e sciocchezze madornali, frutto dell’inesperienza e di una costante asimmetria informativa: di errori e sciocchezze ne ho fatti e ne farò di sicuro, ma almeno hai consentito, a me e alla Giunta, di schivarne non pochi. E poi due cose porteremo tutti noi – i giovani e i meno giovani del Consiglio e dell’Amministrazione che ora rendono omaggio a te come a un gigante della nostra terra – nel nostro cuore, nei mesi difficili e oscuri che ci stanno davanti.

La prima è il senso di dignità della politica forlivese nei riguardi delle realtà e delle rappresentazioni dei centri vicini: tu ci hai insegnato a guardare allo spazio romagnolo in una prospettiva d’integrazione e di cooperazione, da perseguire tecnicamente con la schiena diritta, senza stare a perder tempo in inutili negoziazioni, in documenti scritti in politichese, in scambi assurdi se visti dal punto economico o amministrativo.

Tu volevi una Forlì seria, preparata, aggiornata, pragmatica, rigorosa, affilata come una lama: e noi, con tutte le nostre imperfezioni, vorremmo che fossi orgoglioso almeno un poco di quello che stiamo facendo. E’ un cammino arduo, perché le tentazioni degli accordi incestuosi, degli “aumma aumma” stile vecchia politica offrono sempre una comoda scorciatoia e qualche beneficio provvisorio in termini di visibilità e non solo: ma  portano diritti all’inferno, ovvero alla dissipazione di risorse pubbliche e alla rinuncia al governo del territorio in nome del potere. E noi, come te, stiamo dalla parte del governo, non del potere.

La seconda cosa riguarda il futuro. E’ difficile immaginare una persona che ha saputo avere uno sguardo più lungo del tuo nell’Amministrazione, dandone prove nella pratica: da Romagna Acque ai servizi pubblici, dalle forme nuove di comunicazione alle liberalizzazioni, dalla scala territoriale vasta al superamento dei vecchi partiti tradizionali.

Caro Giorgio, lo sappiamo tutti che sei un romagnolo inclassificabile, come del resto testimonia il tuo recentissimo volume autobiografico scritto con Pierantonio Zavatti, anch’esso una “sistemazione” della tua memoria individuale a beneficio dei cittadini che verranno. Dove ti mettiamo? Nel paradiso dei comunisti? O in quello delle liste civiche? O, ancora, nel nobile castello dei riformisti (che sicuramente ti sarebbe piaciuto di più)? Io azzardo: nello spazio puro, cristallino, degli uomini liberi. Quelli che stanno bene nell’aria fresca e trasparente, che si assumono le loro responsabilità, che sbagliano e che pagano per i loro errori. Senza paracadute. Senza padrini. Senza padroni. Ma che restano, in un paese in cui la politica è stata troppo spesso fatta da servi o da vermi, uomini veri. Così veri e così autentici da farci sentire orfani, quando muoiono.
Come accade oggi, qui, a me e a tanti, davanti al tuo corpo immobile per sempre, caro Giorgio.
 

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