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Unione dei Comuni, la posizione di Forlì Cambia: "Era un'imposizione dall'alto"

"L’unione non è nata, per converso, dal desiderio o dalla consapevolezza dei singoli comuni che ne fanno parte, di volere mettersi insieme in un percorso virtuoso, per offrire migliori risposte ai desideri ed ai bisogni delle singole comunità"

Nota- Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di ForlìToday

La scelta di uscire dall’Unione dei Comuni della Romagna Forlivese, come ha ripetuto il Sindaco Zattini in questi giorni, è il frutto di una decisione meditata e di un preciso impegno assunto nel corso della campagna elettorale dall’attuale maggioranza.  Questa scelta rappresenta la constatazione di un fallimento annunciato. L’unione è in agonia e non può essere rianimata. Non ci sono i presupposti per rilanciarla, per cui non si può attendere oltre e far passare un altro anno. Anche il non agire, in questo contesto, rappresenta una decisione. Quando l’inazione compromette il mandato affidato ad un amministratore, decidere di non agire significa fallire nel proprio impegno e nel proprio mandato. Come ha ricordato Mario Draghi nel suo intervento all’Università Cattolica del Sacro Cuore, in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in Economia, l’11 ottobre 2019: “In molti casi i policymaker devono agire consapevoli che le conseguenze delle loro decisioni sono incerte, ma convinti che l’inazione porterebbe a conseguenze peggiori e al tradimento del loro mandato”. A mio avviso, occorre approfittare di questa finestra temporale che lo Statuto dell’Unione consente, per evitare ulteriori danni.

 Si dice che quello attuale non sarebbe un momento opportuno, perché l’amministrazione si deve concentrare sulla pandemia che ha determinato un’emergenza sanitaria senza precedenti e sulle difficoltà del momento storico che stiamo vivendo. Personalmente dissento da tale impostazione. E’ proprio in un momento di grave crisi economico-sociale che come amministratori dobbiamo mettere in campo tutte le soluzioni per una ripartenza. Non possiamo permetterci di restare fermi e impreparati in nessuna delle nostre responsabilità. Come dice Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritatem, scritta nel 2009 al tempo di un’altra crisi: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme  di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità”. E’ proprio il momento delle difficoltà quello in cui è nostro dovere prendere delle decisioni urgenti ed importanti, soprattutto quando sono il frutto di una riflessione che viene da lontano. In questo momento così difficile per tutti i nostri concittadini, occorre avere coraggio di dire le cose come stanno e di non perderci dietro posizioni ideologiche precostituite. Si deve programmare una ripartenza e nel fare ciò, la prima cosa è tagliare i rami improduttivi.

 L’unione dei comuni è un ramo secco che va tagliato, non essendo in alcun modo riformabile. Questa è una questione oggettiva, non ideologica. Di questo dovremmo essere tutti consapevoli ed avere l’onesta intellettuale di riconoscerlo. Non ci interessa in questo momento indagare le responsabilità che penso vadano equamente ripartite tra coloro che l’hanno gestita e soprattutto coloro che l’hanno fortemente voluta. In tal senso, ritengo sotto il profilo gestionale che non si debba accedere all’adagio: “tutti responsabili, nessun responsabile”.  RRicordo che l’unione dei comuni fu pensata dal legislatore con l’intenzione di offrire, in particolare ai comuni di piccole dimensioni, la possibilità di condividere i servizi, per ottenere una riduzione dei costi di gestione ed un loro efficientamento, dovuto al cumulo di risorse statali e regionali che sono investite negli anni, per arrivare ad una razionalizzazione dell’ordinamento degli enti locali.

Doveva essere evidente, fin da subito, che un’unione di 15 Comuni del comprensorio provinciale, con la presenza di un grande comune, capoluogo di provincia, non poteva dare risultati, per un’evidente disomogeneità d’interessi delle comunità di riferimento e per la diversa morfologia dei territori.  Il legislatore aveva previsto, nell’originaria versione dell’art. 32 del TUEL, la creazione di questo ulteriore ente locale, prodromico ad un’operazione di fusione tra i comuni che ne facevano parte. La realizzazione pratica ha portato, nel nostro caso, alla nascita di un carrozzone d’indebite dimensioni, che ha certamente tradito l’intento originario del legislatore. L’unione dei comuni, per come è stata percepita dal sottoscritto non avendo avuto un’esperienza diretta nelle passate amministrazioni, ha avuto il grande vizio d’origine, di natura ideologica, di essere sorta per imposizione dall’alto, senza ricevere alcun preciso indirizzo.

L’unione non è nata, per converso, dal desiderio o dalla consapevolezza dei singoli comuni che ne fanno parte, di volere mettersi insieme in un percorso virtuoso, per offrire migliori risposte ai desideri ed ai bisogni delle singole comunità; attraverso una condivisione dei servizi e la conseguente loro implementazione e valorizzazione. E’ stata una sorta di fusione a freddo, carente di vera volontà politica di condivisione.  L’alternativa che ha di fronte un amministratore locale è, in effetti, la seguente: partire dai bisogni delle persone e dalle esigenze dei cittadini delle comunità e cercare tentativamente le risposte a questi bisogni.  Oppure partire da schemi preconcetti e dall’ansia di applicare formule astratte (pur sulla base di nobili intenti, come quella del risparmio dei costi, evocato a più riprese nel dibattito anche in commissione). Per inciso, va detto che quello del risparmio dei costi non può essere l’unico criterio. Abbiamo visto e siano tutti testimoni di cosa succede quando il risparmio dei costi diventa l’unico criterio con cui si prendono le decisioni. Penso al taglio dei costi nella sanità pubblica, con la riduzione dei posti letto di terapia intensiva, che ha determinato il dramma sociale che stiamo vivendo. Nessuno può negare che tale impostazione sia frutto di una politica miope, che vive alla giornata e non sa programmare il futuro.

Pertanto, o si parte da uno sguardo realistico su quelli che sono i veri bisogni e sulla condizione dell’uomo, oppure ci si trincera dietro principi o schemi astratti, che si hanno in testa e li si applica alla realtà, snaturandola. La seconda opzione, come la storia insegna bene, produce una forzatura della realtà e determina un approccio violento nei confronti delle persone.  Oltre alla forma giuridica dell’Unione dei Comuni, che con il suo malfunzionamento ha creato, nel nostro caso, un eccesso di burocratizzazione ed un peggioramento dei servizi resi ai cittadini, il legislatore ha previsto un'altra forma associativa più snella, quella della convenzione tra i comuni, ex art. 30 del TUEL ampiamente utilizzata da larga parte delle amministrazioni locali anche qui in Romagna. Questa amministrazione è consapevole del ruolo di traino che deve svolgere il Comune di Forlì nei confronti degli altri Comuni della nostra provincia, per lo sviluppo dei territori e non si vuole esimere da una fattiva collaborazione con tali enti. Il punto di partenza deve essere, in ogni caso, una volontà di collaborazione che nasce dal basso, dalle esigenze dei singoli comuni e delle comunità che ne fanno parte, senza alcuna forzatura ed imposizione dall’alto.  Io penso che la delibera che approviamo oggi rappresenti una decisione strategica. Gli effetti di tale decisione saranno oggetto di valutazione da parte dei cittadini forlivesi, in termini di miglioramento potenziale dei servizi che torneranno in capo al Comune di Forlì.

Elio Dogheria capogruppo della lista civica Forlì Cambia Zattini Sindaco
 

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