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Lunedì, 2 Ottobre 2023
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80 anni fa l'armistizio di Cassibile, la storia di del marò forlivese Delmiro Cortini mai più tornato a casa

In base alle ricerche storiche, la storia di Delmiro Cortini (detto Solideo) rientra, all’interno dell’odissea vissuta da 236 militari forlivesi, deportati nei lager nazisti dopo la caduta del governo Mussolini e il cambiamento di fronte dell’Italia, militari che non tornarono più a casa

Il 12 settembre 2023 avrebbe compiuto 100 anni. Era un Internato Militare Italiano (IMI) di Forlì, il suo nome era Delmiro Cortini e viveva a Villa Pianta. Ancora oggi a distanza di tanto tempo la famiglia lo ricorda con rimpianto e affetto, come dimostra la testimonianza della nipote Marina Cortini, che ha ricostruito l'ultimo periodo della vita di Delmiro e racconta le angosce dei familiari che per lungo tempo non ebbero notizie di lui. Paola Bezzi, cognata di Marina e ricercatrice storica, contestualizza quanto avvenne ai soldati italiani nei giorni successivi alla firma dell'armistizio di Cassibile, del quale il 3 settembre scorso è stato l'80esimo anniversario.

Il ricordo

La disperazione delle madre di Delmiro nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre 1943, continuò per mesi e mesi anche dopo la fine della guerra. Diversi soldati tornavano e lei continuava ad attendere vanamente il figlio sul cancello di casa. "C’è davanti al cancello di casa una piccola donna. È  vestita di nero e scruta in lontananza la "fine" della strada con i suoi occhi azzurri, colmi d’acqua - esordisce nel suo racconto Marina Cortini -. Si stropiccia le mani sul grembiale, si aggiusta una ciocca di bianchi capelli, usciti dal fazzoletto nero. Tutti i giorni si ripete la stessa scena, d’attesa. 'Tornerà?' Tornerà Delmiro, chiamato in famiglia Solideo, quel figlio tanto amato e tanto sfortunato? Non si dà pace Ernesta. 'Perché non torna?' Non era sufficiente aver perso un’altra figlia, Olga, di soli 7 anni a causa della "Spagnola"?"

"Delmiro ha tenuto fede all’ideale di libertà contro la tirannia - prosegue Marina Cortini- contro l’assurdità di una guerra. Quell’8 settembre del 1943 sicuramente avrà sperato che la guerra fosse finita, che sarebbe potuto tornare a casa. Invece ha avuto inizio il periodo più difficile della sua vita: essere fatto prigioniero perché italiano e "traditore". I nazifascisti avranno fatto pressione anche su di lui, ma, forte dei suoi ideali di giustizia e di libertà, ha scelto di non diventare veramente traditore".

"Dai racconti di mia mamma Rina, che oggi ha 95 anni, so che Delmiro aveva sempre desiderato entrare in Marina e lo dimostrano le foto che lo ritraggono con la divisa da marinaio e il foglio matricolare. Ho così scoperto che, con ogni probabilità, mio padre Gino, fratello di Delmiro, ha scelto per me il nome Marina e per mio fratello secondogenito il nome Delmiro. Abbiamo ritrovato diverse lettere inviate da La Spezia, dove era di stanza come marò, anche quel famoso 8 settembre del 19443, quando l’esercito italiano rimase senza ordini. C’è da chiedersi che fine abbia fatto il nostro esercito. Dal racconto di mia nonna Ernesta ho saputo che Delmiro era salito sul treno per raggiungere Forlì, la sua casa, ma a Bologna fu 'sequestrato' dai soldati tedeschi, che avevano già invaso l’Italia, e fu portato in Germania. La nonna mi disse che alla "frontiera" lanciò un biglietto per fare sapere ai genitori e al fratello che lo portavano lontano. Una ragazza raccolse lo scritto e fece sapere il contenuto ai miei nonni", ricostruisce la nipote.

"Siamo certi che era un IMI, un Internato Militare Italiano: infatti si era rifiutato di entrare nella cosiddetta Repubblica di Salò; inoltre non venne considerato prigioniero di guerra per cui non ebbe neppure l’assistenza della Croce Rossa Italiana. Un giorno mi è stato raccontato che il parroco di Santa Maria della Pianta si recò dai miei nonni Giuseppe ed Ernesta per dare la notizia della morte certa del loro figlio. Alla stazione di Forlì, su un treno che passava, c’erano dei giovani che gridarono il nome di mio zio, dicendo poi che era deceduto a causa dell’esplosione di una bomba, proprio davanti l’ingresso di un rifugio antiaereo. Mia madre ha sempre detto che Delmiro lasciò passare una donna, per cui lui rimase sepolto “vivo” nella sabbia di quel lager: è morto infatti per soffocamento". "Era il 15 marzo del 1945 - conclude - non aveva ancora 22 anni e la guerra sarebbe finita a breve. Solo nel gennaio 2021, su richiesta di mio fratello Marco, mio zio ha ricevuto la Medaglia d'Onore per la fedeltà dimostrata nei confronti della patria e per gli alti valori ideali espressi dalla sua scelta".

La storia      

Paola Bezzi, cognata di Marina e ricercatrice storica, contestualizza quanto avvenne ai soldati italiani nei giorni successivi alla firma dell'armistizio di Cassibile. In base alle ricerche storiche effettuate da Bezzi, la storia di Delmiro Cortini (detto Solideo) rientra, come ricordano anche Salvatore Gioiello e Lieto Zambelli nel libro "Amarcord, piò ‘d quarant’én fa…", all’interno dell’odissea vissuta da 236 militari forlivesi, deportati nei lager nazisti dopo la caduta del governo Mussolini e il cambiamento di fronte dell’Italia, militari che non tornarono più a casa. Tra essi egli fu l’unico marò, come si apprende dal volume di Rolando Romanzi e Gualtiero Zattoni "I cittadini delle province di Forlì-Cesena e Rimini caduti nei lager nazisti e in tutte le prigionie".  "Gran parte dei soldati pensava che la guerra fosse finita - spiega Paola Bezzi - o stesse per terminare, per cui decise di rompere i ranghi e di tornare a casa. Delmiro, dopo l’8 settembre, prese il treno per raggiungere Forlì e festeggiare il compimento dei 20 anni in famiglia, il 12 settembre. "In quanto a venire a casa", scrisse Delmiro Cortini ai genitori il 1° agosto 1943, pochi giorni dopo la destituzione di Benito Mussolini, "con permessi o licenza ci si può mettere il cuore in pace… sarà ben difficile che io possa venire tanto più che ora le licenze e i permessi sono chiusi…"".

"Secondo Claudio Sommaruga, ex internato militare e ricercatore storico per ANRP e GUISCO, su un milione di soldati catturati 197.000 scelsero di combattere per i nazifascisti, mentre circa 650.000 rifiutarono e furono deportati nei lager. Di essi almeno 25.000 morirono.
Una parte, circa 3.000, fu portata nei campi delle SS, mentre la maggioranza fu trasferita negli Stalag, i campi satellite gestiti dalla Wehrmacht: essi entrarono a far parte della mastodontica macchina di sfruttamento tedesca, prima come IMI, poi, dall’agosto 1944 col consenso di Mussolini, come "lavoratori civili", diventando gli "schiavi" di Hitler", spiega Bezzi.

"Almeno un centinaio di essi fu trasferita a Sachsenhausen tra il novembre e il dicembre del 1943. Erano tutti operai specializzati. Come Delmiro, che era "tubista", idraulico. Negli ultimi giorni della sua vita, lavorava nello Stammlager 952d, dove i prigionieri erano adoperati in un’industria della vicina città di Oranienburg, la Markische Metallbau AG, ditta al servizio dell’aviazione tedesca. In una giornata lavorativa di 11-12 ore la fame era il pensiero dominante. E il lager diventava il luogo eletto per l’annientamento del nemico. Sachsenhausen era un campo delle SS. Esso è meno conosciuto rispetto a Dachau, Mauthausen o Auschwitz, forse perché rispetto ai primi due rimase oltre la "cortina di ferro", nella Germania orientale. Ma in esso si perpetrò "l’omicidio di massa di 10mila prigionieri sovietici", tra i quali il figlio maggiore di Stalin, Jakov, che, rinnegato dal dittatore, perì contro il filo elettrificato il 14 aprile 1943. Inoltre, Sachsenhausen non ha avuto alcun Primo Levi che lo abbia raccontato, per cui la storia di Delmiro Cortini può essere utile anche per conoscere quello che Heinz Brandt, lì deportato, definì un "inferno"", ricostruisce la ricercatrice.

"Da quell’inferno Delmiro non è mai tornato - conclude Paola Bezzi - né vivo né morto. Perì insieme ad altri 9 italiani nell’attacco aereo del 15 marzo 1943 e fu sepolto ad Oranienburg insieme ad altri 36 connazionali. Il luogo della sua tumulazione è ancora sconosciuto: forse i suoi resti sono in una fossa comune del cimitero cittadino, mentre subito dopo la morte fu inumato nel cimitero cattolico, con una croce e la sua piastrina di riconoscimento. Ma la guerra era ancora in corso, il cimitero cattolico fu gravemente danneggiato e i corpi furono traslati nei giorni successivi. Rimane intatto il valore della sua scelta. Alessandro Ferioli nel saggio "Per una bibliografia ragionata sugli Internati Militari Italiani" scrive: "La deportazione e il conseguente internamento dei militari italiani nei lager del Terzo Reich, all’indomani dell’8 settembre 1943, sono sempre stati poco studiati e poco valorizzati rispetto a quello che fu il loro peso sostanziale e morale nell’ambito della Resistenza, specialmente se si considera che quel “NO” opposto al nazifascismo dalla grandissima maggioranza dei nostri soldati valse all’epoca come un vero e proprio referendum popolare spontaneo contro la dittatura".

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