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Lunedì, 29 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Fedeli all’Imperatore

Nel 1241, dopo il lungo assedio di Faenza, Federico II concesse a Forlì l’aquila nera su campo oro e il privilegio di battere moneta

Sono giorni, questi, in cui è bene elevarsi un po’. Magari ricordando che sullo stemma di Forlì campeggia un’aquila. È opportuno fare memoria di ciò che significa, e in tal modo eludere le recenti e ripetute versioni “in rosso" riproposte pure in carte ufficiali dal Comune non si sa bene con quale criterio. Insomma, l’aquila di Forlì è nera, perché sveva, un dono antico del Sacro Romano Imperatore Federico II. Dono per cosa?

Bisogna tornare tanti secoli indietro e fidarsi di quanto riportato dagli storiografi.
L’Imperatore vedeva necessaria l’occupazione militare della Romagna, regione cruciale per il controllo dell’Italia settentrionale dove si erano accesi focolai di opposizione antimperiali. I guelfi, a poco a poco, avevano registrato importanti successi anche grazie a una coalizione tra Milano, Venezia e Bologna, nonché Roma che contribuì a far perdere a Federico II Ravenna e Ferrara. Sigismondo Marchesi ricorda come Faenza rappresentasse una spina nel fianco dell’Imperatore, una sorta di ulteriore metastasi guelfa in Romagna da estirpare prontamente. Così troviamo Federico II a Forlì nel giugno del 1240 e da qui “spedì intanto Ambasciadori alli Faventini, ammonendoli à contentarsi di tornare amichevolmente alla di lui obbedienza, senza stare ad aspettare di prova l’ira delle sue armi”. Costoro, però, “spreggiarono” l’ambasciata. Che cruccio: “l’ostinazione de’ Faventini non solo durava, mà s’indurava ancor più”. 

Fu necessario l’assedio che iniziò il 26 agosto 1240: si passò all’attacco e la parte più robusta dell’esercito imperiale era costituita da forlivesi che diedero l’assalto “con scale, mangani e altri ordigni per tal battaglia”. La città sul Lamone resistette il più possibile ma, tra fame e tradimenti, fu presa anche per stanchezza e Raniero conte di Cunio la costrinse ad arrendersi: era il 14 aprile 1241. Si “pensò subito di spianarla” fino a “diroccare le mura”. I faentini, però, implorarono misericordia e la ottennero. Infatti, “li Forlivesi mossi a compassione raccolsero con somma benignità i Faventini” dimenticandosi i trascorsi di ostilità e addirittura i vinti furono “abbracciati con tenerezza”. Seguì una processione di popolo “con palme in mano” da Forlì a Faenza. Stupito da tanto strepito, Federico II chiese da chi fosse composto quel fiume di gente e “intese essere i suoi amati Cittadini Forlivesi”. Ne seguì un dialogo: “Che volete, Forlivesi miei?”, e costoro risposero: “Domandiamo Faenza, sicché più non sia in gratia nostra demolita”. Federico, d’inflessibile sangue germanico, aggiunse: “Lasciatemi, o Forlivesi, castigare costoro, non tanto perché havete veduto quanto a me son stati rubelli, ma perché molte volte gli havete provati maligni nemici, guardate, che la vostra bontà non vi faccia pentire e pensate che meritano d’essere severamente puniti”. Dopo questo discorso, però, l’Imperatore, assecondando le richieste dei liviensi, fece interrompere il lavoro dei guastatori, espulse molti faentini ma consentì di rimanere in città a “popolari e plebei”. 

Lo Svevo ricordò quindi ai faentini di avere “tanta obligatione” nei confronti di Forlì e volle che i forlivesi fossero visti come “buoni amici, e fratelli”. Così tornò all’ombra di San Mercuriale accolto dal Podestà Tebaldo Ordelaffi e da Superbo Orgogliosi, Capitano del Popolo. Qui, Federico II “fù ricevuto con maggior’honore che mai; onde egli in contracambio honorò la Città di moltissimi privilegi, e in particolare la decorò dell’Aquila nera in campo d’oro, che da quel tempo in qua è stata inarborata per insegna dal nostro Pubblico”. Inoltre concesse a Forlì “di batter moneta”. Insomma, quell’aquila nera è dal Duecento che volteggia anche se il suo uso nelle carte ufficiali, almeno nella forma a noi vicina, è attestato con certezza dal Cinquecento, sepolti gli Ordelaffi e mandata via Caterina Sforza. 

L’Imperatore, dunque, conferì a Forlì uno stemma elegantissimo e dal nobile significato, legato pertanto alla Svevia e alla casata degli Hohenstaufen di cui faceva parte Federico II, ricordato anche come “stupor mundi”, la meraviglia del mondo. Spesso invece si vede che purtroppo all’aquila i forlivesi antepongono il più generico galletto. Eppure la particolarità dello stemma della Città è che non si accontenta del simbolo imperiale per eccellenza, ma lo integra con elementi identitari e propri della Forlì antica, una stratificazione geniale e curiosa. Gli artigli dell’aquila ghermiscono due ovuli: uno rosso, proprio di Forum Livi, sopra il quale è impressa una croce bianca, testimone dell’impegno dei forlivesi per la prima Crociata. La combinazione forma una croce di San Giovanni, vessillo dei ghibellini. Nell’altro artiglio un altro ovulo, più semplice, con semplice scritta: “Libertas” per rammentare una stagione di autonomia raccontata già tempo fa in uno dei quasi 360 articoli del Foro di Livio. Accanto allo scudo più recentemente si è voluto aggiungere un ramo di alloro, cioè la sapienza, e di quercia, cioè la potenza. Insomma, chi abita nella città tanto cara a Federico II dovrebbe ricordare che più che "galletto" è "aquilotto". Quando gli antichi vedevano il suo volo sicuro, dritto e veloce davano all'aquila il ruolo di mediatrice tra cielo e terra. Roma ne fece segno di potere universale e il Sacro Romano Imperatore l'ha voluto condividere con Forlì. 


 

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