rotate-mobile
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Forlì, covo di eretici?

L’onore di una città colpito dallo scritto di un frate cappuccino. Ci si affretta a ritrattare, a correggere… Finché ci si ricorda dei luterani di Mapello

Nell’agosto del 1634 fra Dionigi Chelini di Forlì trovò qualcosa di strano, di stonato, anzi, di offensivo negli annali dei Cappuccini appena scritti da fra Zaccaria Boverio da Saluzzo. Ne nacque un caso, sorto – come si leggerà poi – da una “nota particolare” che fu interpretata come “ingiuria universale”. Si susseguono più personaggi per una sceneggiatura che vede fra Dionigi (l’attento lettore degli annali), padre Zaccaria (l’autore degli annali), il Padre generale dell’Ordine, il Magistrato, il Segretario comunale. Non si scherza con le eresie e nemmeno con l’orgoglio dei forlivesi del Seicento, invero un po’ permalosetti. 

Una premessa: l’ordine dei cappuccini era nato un secolo prima in seno ai religiosi di San Francesco e in tempi di riforma luterana furono molte le discussioni che ne accompagnarono i primi passi. A Forlì, la prima sede dei frati di quest’ordine, fin dal 1539, fu la chiesa di San Giovanni Battista in Vico, luogo poi detto “Cappuccinini”. Vi sarebbero rimasti fino alla seconda metà del medesimo secolo, quando si trasferirono in San Giovanni Battista in Faliceto, chiesa e convento ora scomparsi, tra le attuali via Romanello e viale Salinatore.  

Dunque, che cosa c’era in quei fogli per far sobbalzare il cappuccino? C’era scritto che fra Giacomo da Melfi aveva liberato Forlì dall’eresia. Ciò era visto come un disonore per la città, pertanto fra Dionigi propose di parlarne al Generale dell’ordine. Nella Istoria di Alessandro Padovani, cronista che tratta di questa vicenda, si legge di “calunnia data a torto alla patria” e di obbligo di “manutenzione dell’onore”. Forlì città eretica? Fra Dionigi “mai aveva trovato minima ombra per la quale fosse stata infetta”. In particolare qui con eresia s’intende il luteranesimo, era il tempo della Guerra dei Trent’anni e tra cattolici e protestanti in Europa i nervi erano piuttosto scoperti. Insomma, era un argomento su cui non si poteva scherzare.

Al Generale dell’ordine fu detto che Forlì, evangelizzata da San Mercuriale i cui avversari principali furono gli ariani, si era sempre preservata “candida, pura et immacolata”, nonostante il passaggio di Goti e Longobardi. Impossibile, poi, negare che qualche secolo prima avesse dato gatte da pelare a Roma, specialmente con il ghibellinissimo Francesco II Ordelaffi, anche per ciò era ravvisabile una giustificazione: “se bene talora era stata ribelle a Santa Chiesa e interdetta, tuttavia mai aveva vacillato nella fede, ma che le ribellioni, o erano state per mantenersi in libertà, o sotto li tiranni capi delle fazioni, aiutandoli questi a dilatare i confine del suo dominio”. Si omise di accennare Marcello Palingenio, maestro presente in Forlì tra il 1535 e il 1537 e autore di un trattato sullo Zodiaco censurato a Roma, ma pazienza. 

Il Generale, per ridimensionare l’incomprensione, rispose che “facilmente poteva essere che nella città in quel tempo fossero alcuni macchiati d’eresia”, come del resto era comune in tutti i luoghi simili a Forlì. Tuttavia i cappuccini forlivesi non accettarono il compromesso e il Generale concluse che quanto scritto negli annali riguardo al capoluogo romagnolo era falso, e “lui avrebbe fatto levare il foglio, ricercando l’Historia pura verità et non menzogne”. 
Ciò però non bastava, perché il fattaccio, fino a quel momento chiuso tra i conventi, giunse alle orecchie del “Magistrato” (più o meno il Sindaco di allora) che non accettava di buon grado che un padre cappuccino avesse “tassata la città d’eresia” e ormai il guaio era fatto perché l’opera era stata pubblicata, già circolava, insomma, era necessario trovare il modo di “procurare che questo padre ritrattasse quanto aveva scritto”. 

Furono quindi chiamati quattro cittadini per scrivere al padre Generale onde “volere sanare la ferita data alla nostra patria indebitamente”. A questo punto, il destinatario disse – per farla breve – che più di togliere la pagina incriminata non poteva fare, e per altre iniziative si sarebbe dovuto conferire con l’autore dello scritto, padre Zaccaria. Da Forlì, quest’atteggiamento fu letto come degno del miglior scaricabarile tanto che il Segretario comunale, Giuliano Bezzi, si prese il disturbo di conferire davanti al Consiglio il 27 settembre 1635 sull’esito della trattativa. Bezzi parlò di “equivoco pigliato con una città convicina”, là dove “fu sparsa l’eresia di fra Bernardo Ochini”. 

Mentre non si azzardavano ipotesi su quale città fosse davvero “infetta”, soggiunse che padre Zaccaria aveva trovato un manoscritto secondo il quale erano stati “liberati alcuni nella città di Forlì da qualche errore di eresia, mediante la predicazione di Fra Giacomo da Molfetta”. Nella vertenza venne fuori che gli eretici, se mai fossero stati trovati veramente a Forlì, non erano forlivesi ma “forastieri”. Insomma, il guaio era dovuto al fatto che il compilatore aveva trasformato una “nota particolare” in una “ingiuria universale d’una città intera”. Per mettere una toppa, in buona sostanza, si dovrà dire che gli eventuali eretici scovati a Forlì “erano pochi e forastieri”.

A conferma di questa dichiarazione era stata avviata la procedura d’indagine presso gli uffici della Santa Inquisizione e, dopo lungaggini e passaggi che in questo breve resoconto si eludono, risulterà che “non si è trovata cosa che tocchi non solo il generale della città, ma neanche il particolare (si può dire) di qualche cittadino”. In realtà non è del tutto vero, e il “si può dire” tra parentesi è un indizio furbetto che qualcosa era conveniente omettere senza manipolare la verità. Tornava così in auge la questione dei “pochi e forastieri”. Ci si ricordò infatti che c’era stata una colonia di modesti operai lombardi trasferitasi a Forlì.

Con loro avevano portato un libro proibito: la “Tragedia del Libero Arbitrio” di Francesco Negri da Bassano. La colonia luterana non costituì una scuola né fece proseliti e non s’integrò mai con i forlivesi che, infatti, non li consideravano concittadini. Denunciati e processati, abiurarono il 26 ottobre 1567. Abitavano in Borgo Cotogni (più o meno dove ora c’è la Galleria Vittoria) in una casa di proprietà Merlini (famiglia di un cardinale). Fu dato ordine di distruggere l’abitazione e che sul luogo fosse posto “alcun segno a perpetua memoria”. Si chiamavano: Giacomo, Francesco, Sebastiano, Pietro Martire, appartenenti alla famiglia “Locatelli alias Cadinari” originaria di Mapello. Uno era un fornaio, l’altro un pettinaio, poi un tornitore e un merciaio. Non si sa se la casa fu davvero demolita e non ci sono altre notizie che li riguardino. Tornarono da dove erano venuti? Divennero in tutto e per tutto forlivesi? Sul terreno adiacente alla loro abitazione, successivamente sarà costruito il convento di Santa Elisabetta, affidato alle cappuccine.

Si parla di

Forlì, covo di eretici?

ForlìToday è in caricamento