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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Ispezione al carcere

Nel 1859 Forlì vive il passaggio dallo Stato Pontificio al Regno di Sardegna. Il nuovo Governo prende possesso della città e controlla le patrie galere

Nel 1859 Forlì entra a far parte del Regno di Sardegna. Una delle prime azioni compiute dal Governo che ha preso il posto di quello pontificio fu insediare gli uffici istituzionali e di conseguenza una serie di ispezioni. Per esempio: in che condizioni sono le carceri? Il Regio Commissario della Provincia di Forlì stila un rapporto che segna l’avvio degli atti del nuovo Stato a trazione piemontese, lo verga a mano dopo visite a luoghi e uffici, colloqui con persone, vaglio di informazioni di vario genere. Il carcere, anche nel presente, resta un luogo scarsamente conosciuto da chi ne è all’esterno: in quei giorni d’estate del 1859 ci si imbatte nei più deboli ed emarginati. 

Vengono messe a verbale alcune “lagnanze da parte dei detenuti” in merito alla “cattiva qualità del vino loro somministrato”. Il commissario chiede di “richiamare all’esecuzione del suo contratto il fornitore carcerario” dopo un “assaggio” per constatare se quello che è scritto nei “capitoli dell’impresa” è stato rispettato. Ciò perchè “la condizione dei carcerati non sia loro resa peggiore dal fatto degli uomini, di quello a cui sono condannati dalle leggi”. Altro motivo di lagnanza sarebbe la “sostituzione al bacalà nei giorni di magro” proposta dal fornitore carcerario per “evitare aumenti di prezzo” ma ciò contravveniva al contratto d’appalto. Pare proprio che qualcuno fosse solito “lucrare sul valore della razione”, e non certo erano i carcerati. Tra l’altro “il Custode delle Carceri abusa a favore specialmente di chi ha denaro”. 

Si parla poi di casi personali, come “il condannato Cavedagna Pietro” trasferito alle carceri di “Forte Urbano”, cioè a Castelfranco Emilia. Viene citato pure “Fabbri Achille di onorata famiglia di Mondolfo”. Costui “venne condannato a 12 anni di detenzione per avere causata per causa di gelosia una ferita alla propria moglie sanata in due giorni”. Fabbri “da sette anni giace in questo carcere”, sebbene avesse chiesto “ripetutamente la sua grazia”, le venne concessa a condizione del “perdono della moglie”. Ella, però, “per togliersi forse davanti agli occhi un ostacolo al tradimento della fede conjugale, gliela diniegò”. Da informazioni prese, il detenuto “tenne mai sempre buona ed onorata condotta sia in carcere che prima di essere in essa racchiusa”, invece “il contrario devesi dire di chi gli è moglie”. Il commissario è molto colpito da questo carcerato tanto da sciogliersi in un’inconsueta tenerezza: “la sincerità delle parole del Fabbri confermate dagli astanti, il dolore da cui era compreso, non poterono a meno di rinvenire la via del cuore dello scrivente, il quale se è inflessibile nell’amministrazione della Giustizia, non può poi farsi capace di una così severa punizione, e non può scorgervi che una vendetta indiretta”. Insomma, il commissario chiede “una grazia a favore del Fabbri” o quanto meno una “diminuzione della restante pena che dovrebbe ancora scontare”. 

Per il resto, non certo consolante è il ritratto che si fa del carcere di Forlì in quel momento, una struttura  con custode, sottocustode, cinquantadue detenuti e un “numero dei secondini eccedente”: nove, quando ne basterebbero sei. Inoltre “questo personale poi è notoriamente conosciuto come contrario all’attuale regime di Governo ed amante di quello Pontificio ora cessato e sulla cui fede non potrebbesi forse con troppa fierezza contare in caso di bisogno”. I carcerati “sono quasi tutti posti al piano terreno che è umido e malsano e sarebbe spesa necessaria a ben fatta nell’interesse dell’igiene di quelli sgraziati che fossero trasportati al piano superiore ove l’aria è più libera e le celle sono più sane e che servendo già pei detenuti politici sotto il cessato Governo Pontificio trovasi in oggi vuoto”. 

Il referto pone l’accento su “due cose” che “hanno fatto specie al sottoscritto”. Cioè: “nel momento che havvi tante altre camere vuote e disponibili”, perché i detenuti sono “lasciati confusi assieme in una stessa Camera, e il grassatore già condannato o in via di esserlo ed il detenuto per semplice contravvenzione”? Tale sistema “non è solo contrario ai sentimenti di umanità, ma tanto più ai principj di una sana legislazione poiché a vece di servire per una punizione è anzi scuola a maggiori delitti”. Così facendo, inoltre “chi esce dal carcere imbevuto dei principj dei compagni già condannati al bagno perpetuo (cioè la colonia penale) nulla avrà appreso di buono ma anzi seguendo gl’istinti della sua indole tendente anche per poco a perversità, non potrà mai più diventare dabbene ed onorato cittadino, ma popolerà continuamente le carceri”. 

Altro “oggetto che fece specie al sottoscritto” sarebbe “il numero considerevole di detenuti che languiscono in carcere per soli sospetti della Polizia, senzaché questi siano poi avvalorati da alcuna prova”. Brutta faccenda: “molte persone anche innocenti devono languire per mesi e mesi in carcere senza che un processo legale venga a ridonare loro quell’innocenza che gli fu ingiustamente tolta”. Insomma, anche per tutto ciò il commissario dà la soluzione: “comodità di locali disponibili”, separando “il semplice prevenuto dal grassatore condannato” e di seguito incaricare “apposita commissione di persone legali” che “preso in esame il verbale di arresto e sentite quelle prove testimoniali” riferirà al commissario che avrà “facoltà di ordinarne il rilascio se li crede innocenti” o “li sottoponga a processo se milita contro essi qualche prova di colpabilità”. 

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