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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

L’anno che verrà, visto da due romagnoli a Milano e Roma: il musicista Danilo Rossi e il manager Lorenzo Tersi

Danilo Rossi, forlivese, concertista di fama internazionale, è la prima viola solista della celebre orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Lorenzo Tersi, cesenate, è uno dei più accreditati consulenti italiani in agri business e promotore delle sessioni di analisi economica di “Fattore R”.

Continuiamo a interrogarci sul futuro. Questa domenica sono con noi due romagnoli che, per lavoro, vivono lontano dalla terra cui sono legatissimi. Danilo Rossi, forlivese, concertista di fama internazionale, è la prima viola solista della celebre orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Lorenzo Tersi, cesenate, è uno dei più accreditati consulenti italiani in agri business e promotore delle sessioni di analisi economica di “Fattore R”.

Danilo Rossi: “Non so se ho un’anima, sono certo che abbiamo davanti nuove sfide”

Lo chiamo alle cinque del pomeriggio, è in casa a Milano, sta chiacchierando con suo figlio. Ma sta anche uscendo per le prove alla Scala, ci risentiamo alle dieci di sera. Per lui, nottambulo, è ora comoda. Mentre parliamo ride frequentemente, ogni conversazione con lui è divertente: lo immagino in abbigliamento informale, quello che predilige, con le mani a tormentare la foresta di capelli imbiancati. Il suo nome è nell’olimpo dei musicisti, ma delle formalità se ne disinteressa. I genitori erano contadini che, ai tempi della sua adolescenza, aprirono un negozio di alimentari. Danilo, che ha suonato nelle sale più importanti del mondo, in quanto a sentimenti non s’è spostato d’un centimetro da quei tempi.

C’è futuro per la musica?
“Si. La pandemia ha ingenerato voglia di proporla in modo diverso e, contemporaneamente, ha messo di fronte agli occhi di tutti la necessità di cambiare le regole del gioco, soprattutto le normative a tutela del lavoro. Un tema che andrà inevitabilmente affrontato.”

Tu stesso ti sei messo in gioco…
“Durante il primo lockdown ho affisso post it alle pareti del condominio dove abito, a Milano.  C’era scritto: sono Rossi, domani alle 17 dal pianerottolo suono per voi, aprite le porte di casa e ascoltate, se vi va. L’ho fatto per stemperare la tensione e perché ci sentissimo meno solo. I vicini hanno gradito, ho preso a suonare ogni giorno a metà pomeriggio. Qualcuno lo ha segnalato a “Repubblica”, che ha presentato la storia come una delle cose per cui val la pena vivere; qualche giorno dopo ne ha parlato il “New York Times”.”

Una bella soddisfazione…
“Non pensavo ai giornali quando ho concepito quella cosa lì, “La Scala sulle scale”. Ho fatto anche altro: ogni giorno, da sempre, passo ore a studiare e a sbagliare, ho cominciato a farlo in diretta Facebook. Per far capire che la musica è allenamento, mettersi in discussione.  La clausura ha costretto tutti a uno sforzo di fantasia E quando il covid ha dato respiro è scoppiata l’urgenza, l’entusiasmo febbrile, dello spettacolo dal vivo. Sono sorte iniziative, anche da parte di enti pubblici. A Forlì, per parlare della nostra città, è stata allestita l’Arena San Domenico, un contenitore che mancava. Al cui interno, con gli amici di “Forlì Musica”, abbiamo realizzato uno spettacolo che è stato seguito, oltre che in presenza, in streaming da oltre millecinquecento persone in tutto il mondo. Il che ci ha permesso di pagare i tecnici”.

E questa è l’altra faccia della medaglia…
“Esattamente. Il covid ha disvelato la fragilità del “sistema cultura”. La pandemia ha messo in ginocchio famiglie di artisti, maestranze, collaboratori, addetti. Non parlo di gente come me, privilegiati, ma di tantissimi altri. Se non c’è spettacolo, troppa gente non guadagna da vivere. Sento discorsi banali su chi è in scena, fatti da chi non sa quanta gente viva nel retroscena. Qualcuno ha definito la musica cibo per l’anima: io, che non so neppure se un’anima ce l’ho, penso che a tanti la musica serve a pagare le bollette del riscaldamento. Dobbiamo garantire a costoro dignità. In Francia, per fare un esempio, certe garanzie esistono da tempo per chiunque operi nel settore della cultura”.

Il problema è serissimo, lo so; lo aggiro, colpevolmente, per amor di battuta: dai ragionamenti che fai si capisce che sei comunista…
“Non mi pare che in Francia ci sia un regime sovietico, e comunista lo ero solo da ragazzo. Sotto la spinta di mio babbo, che aveva gran passione politica. Era una generazione che sapeva da dove veniva il pane. Il giorno del diploma conseguito a Bologna, mi presentai in negozio: il babbo, per festeggiare l’evento, mi autorizzò a prendere dalla dispensa una gazzosa. Noi artisti dobbiamo scendere dal pero, preoccuparci di chi ha meno. Spero davvero che il 2022 porti consiglio a chi deve occuparsi delle sorti dei lavoratori dello spettacolo.”

Un pomeriggio della scorsa estate, ero a casa di Riccarda Casadei, figlia del grande Secondo. Lei ricordava che ti avevo intervistato in tele. Mi venne in mente di chiamarti e passartela al telefono. Tu accettasti immediatamente di essere in Piazza Saffi a Forlì, la sera in cui il Comune avrebbe celebrato il cinquantennale della scomparsa di suo padre. Gratuitamente.
“Non potevo dire di no: i miei genitori mi portavano ogni anno al concerto del Primo Maggio in piazza, negli anni Settanta; Secondo Casadei era un mito, ascoltarlo fu una delle ragioni per le quali, a cinque anni, cominciai a suonare il violino. Stare sul palco, lo scorso settembre, nella piazza della mia città, assieme a magnifici musicisti che vivono con il folk, è stato emozionante. Non esiste musica di serie a o di serie b: esiste musica che emoziona oppure no. La musica romagnola è bellissima”.

Secondo Casadei per tutta la vita aspirò a suonare alla Scala. Forse anche per questo Riccarda, che ti ammira, si ostina a chiamarti Maestro e a darti del lei…
“Non dovrebbe, sai che non ci tengo. Ma Riccarda Casadei incarna la virtù dei romagnoli, delle quali suo padre fu ambasciatore: l’educazione, il rispetto per il lavoro proprio e altrui, la curiosità, la passione. Un po' di mondi, di città e di ambienti, grazie al mio lavoro, li ho visti. Ma un luogo come la Romagna, per bellezza delle cose e delle persone, non l’ho mai trovato.”

Nel tuo futuro cosa c’è?
“Il pensionamento dal lavoro alla Scala, tra qualche mese. Ho deciso così, trentasei anni, trascorsi all’interno della più prestigiosa istituzione musicale italiana sono abbastanza. Un ambiente meraviglioso, cui devo tanto. Il viaggio dalla campagna forlivese fino alla Scala fu, metaforicamente, molto lungo; ne fui, e ne sono, orgoglioso. Ma è venuto il momento d’essere più libero: continuerò a insegnare all’Università a Lugano, farò concerti dove mi capiterà, starò di più a Forlì. Inventerò cose. Il futuro che ci attende, dopo la pandemia, sarà fatto di nuovi modi di vivere, di riposizionamenti professionali ed esistenziali. Ho cinquantasette anni, sono ancora in tempo per affrontare sfide”.

Lorenzo Tersi: “Nelle città romagnole ci sono energie nuove”.

Abita a Roma, non lontano da Piazza di Spagna, assieme alla moglie, l’attrice Cecilia Dazzi, e ai loro gemellini. Si muove per l’Italia incessantemente: partito dalla direzione del Consorzio del Chianti, si occupa da tempo di consulenze in agri business per alcune delle più importanti aziende italiane. Lo chiamo mentre sta entrando in albergo, a Milano, lo aspettano due giorni di riunioni. Il suo tono è pacato e intriso di profonda educazione, appresa dai genitori su quella collina cesenate ove lui e Cecilia si rifugiano appena possono. È considerato uno dei maggiori esperti di produzioni vinicole, a fargli domande parto di lì.

C’è futuro per il vino, in Romagna?
“Si. Grazie alla capacità strategiche di grandi cooperative come Caviro e Terre Cevico, che esportano in tutto il mondo e danno lavoro a migliaia di persone, e a piccoli imprenditori che stanno valorizzando non solo il Sangiovese ma anche altri vini.  Penso nel riminese alla produzione di Rebola, nell’ imolese  al Pignoletto, in diversi altri luoghi all’Albana.”  

Dalle nostre parti ci sono numerose aziende che fanno vino, anche di qualità. C’è è posto per tutti?
“In Romagna si produce vino ottimo, per molti il problema è commercializzarlo, rendere sostenibile l’attività. Nel corso di uno degli appuntamenti di “Fattore R”, il premio Nobel per l’economia Michael Spence, sfatando un mito che ha guidato a lungo il nostro pensiero economico, ha affermato che piccolo è bello solo se è connesso. Se sei isolato finisci per essere ghettizzato. È brutto da dirsi e amaro da accettare, ma è così.  Personalmente adoro le piccole realtà, come quella della azienda agricola di mio padre. Ma nella economia delle reti sopravvivi se ne sei parte. Il mondo del vino non fa eccezione a questa regola”.

A proposito di premi Nobel e di “Fattore R”, mi colpì quel che disse l’economista Eric Maskin qualche anno fa: la Romagna è una delle aree più evolute del mondo, pecca nel ricambio generazionale e nella logistica, ma miscela produttività e felicità come nessun’altra.
“Non fu affermazione gratuita. Era, quella, la seconda edizione di “Fattore R”: incaricammo il professor Maskin di una ricerca approfondita sui parametri economici romagnoli. Lui stesso fu sorpreso dai risultati: ci sono distretti, tra i Paesi sviluppati, più efficienti della Romagna. Ma nessuno ci eguaglia per qualità della vita, benessere sociale e culturale. Rimane il tema dell’investimento sui giovani e sulle loro opportunità. Sta qui la scommessa del futuro.”

Quali sono le prospettive di Fattore R?
 “Continuerà ad esistere, mi pare che coloro che sostengono l’iniziativa ne siano convinti. È diventato quel che auspicavamo: un luogo ove rappresentanze e intelligenze s’incontrano per ragionare del futuro della nostra terra. Però nulla è scontato. “Fattore R” darà risultati se saprà intercettare esigenze reali. Vale per le imprese, vale per chi si occupa di cultura economica”.

È nata qualche settimana fa Romagna Next. Vedere assiema tanta bella gente animata da ottime intenzioni fa piacere. Però qualcuno, scorrendo le immagini diffuse dai media, ha definito l’iniziativa una foto-opportunity, una sfilata di rappresentanze, e poco più.
“Non sono d’accordo, Romagna Next è una buona cosa, può costituire la bussola dell’attività politica romagnola, chiamata a decidere come e dove investire le risorse europee. Dobbiamo essere ottimisti, puntare sull’etica e sull’estetica della Romagna. Certo, Romagna Next dovrà mostrarsi operativamente concreta, snella, rapida. I tempi che viviamo non consentono lungaggini. Si dovrà ragionare sempre meno di città singole e sempre più di Romagna come sistema integrato”. 

Disponiamo di una classe dirigente adeguata alle sfide del post pandemia?
“Sono convinto di sì. È in atto un rapido ricambio generazionale. Tutti sappiamo che le città romagnole hanno avuto per decenni solidi punti di riferimento. Persone che vanno ringraziate per avere tratteggiato autorevolmente le linee guida. Ma occorre andare oltre, è un percorso naturale.  Sono in pista nuove idee, nuove energie. Cambia il potere e cambiano i luoghi ove il potere viene esercitato. Le persone che si profilano, per rispondere alla tua domanda, mi paiono eccellenti.”

Abiti a Roma, nello stabile ove vive quella meravigliosa persona che è Pupi Avati, ma ti senti romagnolo. Si dibatte su quale sarà il futuro delle città e quello delle comunità locali, in era post covid. La tua opinione?
“Ti rispondo con una affermazione: dopo la pandemia sarà più facile che un romano si trasferisca in Romagna che viceversa, nonostante le meravigliose attrattive della Città Eterna. Le piccole comunità possono diventare competitive, da Saludecio a Brisighella. La connessione telematica offre una grande opportunità, per molti non sarà più necessario vivere in una grande città. In Romagna abbiamo sicurezza, servizi, socialità, sanità. Servono politiche che incoraggino chi sceglie di vivere qui, è in questa direzione che occorre investire risorse private e pubbliche: logistica e trasporti devono migliorare.”

I nostri singoli comportamenti cambieranno?
“Sono già cambiati nella gestione del tempo, negli ultimi due anni. Ci muoviamo meno, utilizzando le tecnologie, e dunque di tempo ne abbiamo di più. Occorre capire se lo spendiamo nel modo giusto. Dobbiamo utilizzarlo usufruendo e valorizzando cultura, ambiente, passioni, socialità. E torna il discorso sulla Romagna, perché si tratta di cose che da noi abbondano. Disponiamo di un patrimonio inestimabile, dove si può trascorrere il tempo meglio che in Romagna?”.

Nelle prossime settimane ascolteremo altre autorevoli voci. Buona domenica, alla prossima, e Buon Natale.
 russomannomario54@gmail.com

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