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La domenica del villaggio

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A cura di Mario Russomanno

I Maestri - Il primario Carlo Fabbri: "Curiamo corpi che contengono emotività ed affettività"

Non fosse gran medico sarebbe una rock star riflessiva, alla Ligabue, o un pittore dalle tinte accese

Carte in tavola: poiché questa conversazione si svilupperà attorno ad argomenti vari, preciso che Carlo è gran medico. Dopo la laurea, conseguita a Bologna con lode, nel 1994, si specializzò prima a New York, al Mount Sinai Hospital (si, quello ove sono ambientate famose fiction medical-drama) e poi a Marsiglia, all’interno dell’Istituto Paolì Calmettes, il cui direttore, il professor Marc Giovannini, sarà a Forlì il prossimo 24 Novembre per una attesa conferenza. Poi il lavoro a Bologna, prima all’ospedale Maggiore, poi al Bellaria. Ad abundantiam, Carlo Fabbri, attuale primario (la mia generazione non utilizza la dizione “direttore”) di gastroenterologia degli ospedali di Forlì e Cesena, è portatore di quel tipo di intelligenza ad ampio spettro che amo definire rinascimentale. Ogni tanto, pensateci, s’incontrano persone che coltivano curiosità e saperi utili a inquadrare, come capitava alle migliori menti nel Rinascimento, un problema da diversi punti di osservazione.  

Fabbri fa il medico a tempo pienissimo senza smettere di approfondire saperi alternativi che confluiscono nella attenzione al paziente, inteso come persona. Di lui mi parlò quattro anni fa Alberto Zaccaroni, altro primario dal volto e dal pensiero cordiale, un tipo che occupa le ferie, gratuitamente, in un ospedale in Africa: “ti consiglio d’invitare Carlo Fabbri a Salotto blu – mi disse- ti divertirai”. Andò effettivamente così, con Fabbri, se sei curioso di discipline interconnesse, ti cavi più d’uno sfizio. Il suo entusiasmo, l’eloquio acuminato, la spontaneità ragazzesca, risultano contagiosi. Non fosse gran medico sarebbe una rock star riflessiva, alla Ligabue, o un pittore dalle tinte accese.  L’ho incontrato martedì scorso al Morgagni-Pierantoni, ospedale che frequentai in piena emergenza covid: operato da Claudio Vicini, mago della chirurgia della gola, vidi medici, infermieri, oss, comportarsi ai confini dell’eroismo. Oggi, a tempesta pandemica attutita, l’atmosfera è un tantino più rilassata ma nessuno se ne sta a pettinar bambole.

Carlo, da dove vieni?

Da Bologna: mamma casalinga, babbo fattore di una azienda agricola a Castelguelfo, dove da bambino passavo parecchio tempo. Ho appreso la saggezza del processo naturale della terra e poi il cambiamento epocale determinato dallo sviluppo delle tecnologie agricole. Il lavoro dell’uomo, la sua intelligenza, rimanevano però fondamentali. Per venire a noi, le tecnologie sono indispensabili in medicina ma non possono costituire l’unica risorsa a disposizione del medico. Serve altro.

Il che ci porta ai saperi vasti, al rapporto umano con il paziente, cioè il tuo brodo preferito di coltura...

Guarda, una cosa meravigliosa della medicina è la sua imperfezione; s’interessa, per definizione, di chi è assolutamente imperfetto, l’essere umano. Noi medici, e non solo noi, ne siamo consapevoli, come sappiamo che emotività e affettività rappresentano il senso della esistenza di chiunque. Il corpo è il luogo che accoglie emotività ed affettività, per questo abbiamo l’obbligo di prendercene cura, è la casa dei nostri affetti.

In questa ottica, i saperi alternativi quanto servono?

Sono indispensabili, oggi la tecnologia avvantaggia la medicina ma da sola non basta. La “parte” umana, quella che fa del paziente molto di più di un caso scientifico, la dobbiamo andare a cogliere appoggiandoci anche su esperienze e culture limitrofe. Non mi riferisco solo a psicologia o sociologia. Pensiamo, per fare un solo esempio, a ciò che accade in territori fortunati come i nostri, la Romagna o l’Emilia, e a ciò che quotidianamente portiamo alla bocca. Si tratta spesso di cibo a chilometro zero, dietro  c’è cultura gastronomica e alimentare, agricoltura, etica etc. Cose che servono a vivere meglio, a prevenire disturbi. In altre parti del mondo la medicina è, necessariamente, di conseguenza, altra rispetto a quella che pratichiamo qui. Se cambia lo scenario cambia il lavoro del medico.

Concezioni esclusive del nostro tempo o presenti anche in passato?

Antichissime. La medicina nasce con la convinzione della esistenza di saperi alternativi da coltivare. Noi medici confermiamo, al momento di iniziare la professione, l’antico giuramento di Ippocrate, pronunciato quattro secoli prima di Cristo. Anche allora le patologie erano collegate all’ambiente, alla natura, alle condizioni di lavoro, alle relazioni sociali. Chi curava doveva conoscere ambienti e culture. Oggi, nelle organizzazioni sanitarie migliori, un medico s’interessa di chirurgia robotica, un altro di economia sanitaria, un altro di medicina del lavoro. Si tratta di saperi diversi e conviventi, enormemente più sviluppati e approfonditi che in passato, ovviamente, ma l’idea di fondo è quella.

Un modo di procedere condiviso all’interno della comunità scientifica?

Totalmente condiviso sia dalle organizzazione sanitarie nazionali che internazionali. La spinta oggi è rivolta a suscitare interesse, a diffondere questi convincimenti nei territori, luoghi in cui poggiano le nostre esistenze. Ad esempio è nelle scuole che inizia la cultura alimentare, la prevenzione. Su questi temi dalle nostre parti siamo molto avanti, altrove no. Il sistema sanitario è impegnato a far capire quanto importante sia la posta in gioco.

Il paziente, dal canto suo, si rende conto.

Ha talvolta informazione deformata, fantasiosa e astratta, a causa della nevrosi che deriva dalla diffusione di nozioni, spesso incongruenti, che arrivano da diverse vie. Oggi abbiamo troppi consulenti, che non sono tali, conosciuti e frequentati attraverso la rete. La cosa migliore sarebbe rispettare ciascuno la professione dell’altro. Io non so fare il commercialista, l’informatico o il musicista. Ciascuna professione prevede pazienza, sacrificio, dolore, cose che non possono essere sostituite dalla informazione sul web. Il paziente deve fidarsi del medico, della scienza, delle strutture sanitarie. Specialmente oggi

Perchè specialmente oggi?

Perchè ormai da tempo la medicina è strumento che consente di offrire al paziente decisioni multi disciplinari. Il singolo medico non sentenzia, non emette da solo diagnosi e prognosi. Lo fa dopo attenta condivisione con altri specialisti e con i medici di base, che conoscono benissimo la storia del paziente. Oggi quando si ha a che fare con le strutture sanitarie si può star ragionevolmente certi che ogni aspetto sia stato trattato, approfondito. Si persegue non solo la cura ma anche il complessivo benessere del paziente. E’ la sua storia, spesso, a indirizzarci verso una terapia o un’altra.

Sei ispiratore e regista di “Me ne cibo”, kermesse di confine tra medicina e arte che si tiene a Forlì, al San Giacomo, Sabato 22. Rientra in questa ottica?

Certo. La promuove l’Istituto Oncologico Romagnolo, in collaborazione con la Fondazione Carisp, è appuntamento consolidato. Quest’anno grandi artisti e scienziati parteciperanno. Si ripartirà da Ippocrate e dai principi tracciati allora, per arrivare alla attualità. C’è sempre la persona, con la sua complessità, i sentimenti, le aspirazioni, la cultura, al centro della indagine medica. E c’è il territorio, con le opportunità che presenta ma anche con i rischi che può nascondere. Lo ripeto: noi medici curiamo corpi che contengono emotività e affettività, è questa l’essenza del nostro mestiere.

Ringrazio Carlo Fabbri, con lui si parlerebbe per ore ma dal reparto lo chiamano. Buona domenica, alla prossima.

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