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Venerdì, 26 Aprile 2024
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Italo Cucci: la Rimini del cuore, Berlusconi cantante, Enzo Ferrari furioso e Bologna “capitale della Romagna”

Al telefono la sua voce è forte come quella d’un ragazzo, il tono è, come al solito, divertito. So come prenderlo: gli propongo come tema la Romagna, suo grande amore, ed è subito discesa

Italo è grande giornalista: ha diretto testate che sono parte della nostra vita come “Autosprint”, “Guerin Sportivo”, “Stadio”, “Il Corriere dello sport”, “La Nazione”, “Il Carlino”, “Il Giorno”. Ha fatto molte volte il giro del mondo: da inviato speciale ha raccontato undici edizioni dei mondiali di calcio e sei olimpiadi. È formidabile narratore, lo si ascolterebbe per giorni e si rileggono volentieri i suoi libri. Ha avuto confidenza con i più grandi personaggi dello sport italiano ed internazionale, ai tempi in cui, senza copertura televisiva e in assenza del web, i giornalisti costituivano tramite tra il lettore e ciò che accadeva sulla scena. Lo sport era epica, scrittori come Cucci ne erano i cantori.  Italo è, soprattutto, persona squisita, dai modi semplici. Vive con la famiglia a Pantelleria, di lì scrive quotidianamente editoriali per diversi giornali. Mi ha fatto l’onore di essere per due volte ospite a “Salotto blu”: la cordialità mi autorizza a chiamarlo e a chiedergli di far due chiacchiere. Al telefono la sua voce è forte come quella d’un ragazzo, il tono è, come al solito, divertito. So come prenderlo: gli propongo come tema la Romagna, suo grande amore, ed è subito discesa. "Parlare della nostra terra è sempre un piacere, anche se in questo momento in Romagna fa freddo e a Pantelleria, invece, balliamo tra i quindici e i diciannove gradi.  Ha nevicato una volta sola, negli ultimi trent’anni: fece un centimetro, tutti uscivano di casa per veder la neve", spiega.

Però la Romagna ti manca…
"Sempre. Pensa che per me, che ho viaggiato per decenni, Poggio Berni rimane il paese più grande del mondo. Li, durante la Seconda guerra, passava la “Linea Gotica”: con gli occhi di bambino, osservavo, stupito, soldati di nazionalità ed etnie diverse. Mi accorsi di quanto fosse variegata l’umanità, nacque in me la curiosità che mi ha costantemente indirizzato. Erano tempi tremendi, non me ne rendevo conto, distratto com’ero dall’incessante vai e vieni di truppe, camion, carri armati. Quando arrivò la pandemia scrissi che sarebbe stato un incubo simile alla guerra, anche se pochi se ne stavano rendendo conto".

Un paragone complesso.
"Era un modo per spiegare quanto fosse drammatica la situazione. Che, due anni dopo, è ancora tale, non sappiamo come e quando ne usciremo. Chi avrebbe pensato che sarebbe durata tanto? E poi, pur con il suo carico di tragedia e sopraffazione, la guerra conservava un minimo di regole. Prima di un bombardamento suonava la sirena. Il virus, invece, non avverte nessuno prima di colpire. Ma lasciamo stare, auguriamo a tutti il meglio e torniamo alla nostra terra".

Come finisti a Poggio Berni?
"Papà era segretario comunale a Sasso Corvaro, nelle Marche, dove sono nato. Nel 1944, per sfuggire ai bombardamenti, sfollammo a Poggio Berni. Sono cresciuto a Poggio, il liceo l’ho frequentato al “Giulio Cesare”, a Rimini, la città della adolescenza, della prima gioventù".

Con in testa il giornalismo.
"Non ricordo d’aver mai pensato ad altro. Da ragazzo scrivevo per un giornale che si chiamava “La provincia”; la redazione, guidata da Mimmo Mainardi e Achille D’Amelia, si proponeva di tenere viva l’idea di Rimini autonoma, liberata dal giogo del capoluogo di allora, Forlì, il Cittadone. Speravo di poter scrivere per mestiere. Il mio passaggio al “Carlino” fu determinato da un colpo di fortuna, come spesso accade".

Racconta, se ti va.
"Avevo diciotto anni, pur non avendo un soldo in tasca frequentavo i magnifici locali di allora: ero di casa all’Embassy, a Marina Ccentro, sul viale Vespucci, a due passi dal Grand Hotel. Conoscevo tutti, a cominciare dal mitico cameriere Elio Tosi, che più avanti divenne proprietario del locale, noto per l’eleganza del portamento. Che, purtroppo, è morto un anno fa. Lo hai conosciuto?"

Piuttosto bene, dopo ti dico di lui. Vai avanti…
"Viale Vespucci era il luogo dello “struscio” elegante. Ogni sera i turisti lo percorrevano in passeggiata, le signore vestivano gli abiti migliori. I bar erano affollati di gente che, seduta ai tavoli, osservava e commentava. L’Embassy era il dancing per antonomasia, Mina e tutti i più grandi sono passati di lì. Elio Tosi mi fece conoscere Fred Buscaglione, che mi concesse amicizia".

Era gran personaggio, Fred…
"Sul finire degli anni Cinquanta era il cantautore di maggior successo in Italia, un autentico divo dello spettacolo e della televisione. Le ragazze impazzivano per lui: guidava un Thunderbild rosa, le sue canzoni, piccoli capolavori di interpretazione e ironia, si ascoltano ancor oggi. Era musicista sopraffino e uomo gentile, diversissimo dal personaggio guascone che impersonava. Era innamorato della contorsionista che aveva sposato, fingeva di bere whisky ma in realtà era astemio e nel bicchiere c’era del the. Il “Carlino” mi commissionò un pezzo su di lui, venne apprezzato e così cominciò la mia avventura".

Italo, ti riferisco di Elio Tosi, maestro di turismo e accoglienza, che se n’è andato da poco. Negli ultimi anni, riservato ma socievole, ogni mattina andava a far la barba da Graziano in Viale Trieste, poi comprava i giornali in Viale Vespucci e si sedeva a prendere il caffè sul lungomare, di fronte al bagno 22. Mi sono trovato qualche volta in quel bar a chiacchierare con lui. Non diceva chi era ma i giovani baristi sapevano di lui, lo accoglievano con rispetto.
"Un uomo di valore mi spiace non aver potuto salutarlo un’ultima volta. Ti racconto una cosa divertente riferita all’Embassy. Una ventina d’anni feci riferimento a Mulazzani, che era proprietario del locale negli anni Cinquanta e Sessanta, in un mio pezzo. Un paio di giorni dopo mi telefona Silvio Berlusconi. Mi chiede: Cucci, cosa sa o pensa di sapere lei di Mulazzani? Ribatto: cosa pensa di saperne lei! Insomma, scherziamo un po'. Viene fuori che Berlusconi conserva un bel ricordo di Mulazzani: lo aveva chiamato a suonare e cantare all’Embassy d’estate, ai tempi in cui Berlusconi arrotondava le entrate esibendosi assieme all’amico di sempre Fedele Confalonieri". 

Sugli incontri della tua carriera si potrebbe parlare per giorni. Ne scelgo due, che ti prego di regalare ai lettori della “Domenica del villaggio”. Il primo è quello con Vittorio Pozzo.
"Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale di calcio che vinse i mondiali del 1934 e del 1938 e le olimpiadi del 1936, era un mito. Era stato calciatore, era stato tra i fondatori del Torino, era giornalista e uomo di cultura. Io ero passato dal Carlino allo Stadio per fare il giornalista sportivo. Quando Juve e Toro venivano a giocare a Bologna, il quotidiano torinese “Stampa” inviava Pozzo per descrivere l’avvenimento. Doveva essere accolto adeguatamente, la direzione della “Stampa” si accordava con i giornali bolognesi".

Funzionavano davvero così le cose?
"Era un mondo diverso da quello attuale, i grandi giornali erano istituzioni e Pozzo era uno degli uomini più autorevoli del Paese.  Il mio collega Ermanno Mioli mi dava ogni volta l’incarico di accompagnarlo. Lo andavo a prendere al treno, lo portavo all’Hotel Baglioni in via Indipendenza. Poi tornavo a prenderlo per andare allo Stadio, rimanevo al suo fianco. Lo riportavo in albergo, ove scriveva il pezzo che poi, per telefono, dettava a Torino. Poi andavamo a cena da “Rodrigo”. Ero un giovane giornalista, quelle conversazioni erano importanti, imparavo moltissimo. Poi capitò che Pozzo parlò di me con simpatia, la cosa oltre che inorgoglirmi mi fece, ovviamente, comodo".

Passiamo da un gigante all’altro: Enzo Ferrari, “il Drake”.
"Qui la vicenda è più complessa. Enzo Biagi mi aveva richiamato al Carlino, mi occupavo soprattutto di calcio ma non potevo non scrivere della Ferrari. Occorre tener presente chi era Enzo Ferrari: uno degli uomini più influenti dello sport mondiale. Non parlava quasi mai con i giornalisti ma quando indiceva una conferenza stampa arrivavano corrispondenti da tutto il mondo, ossequiosi. Ferrari era anche uomo ombroso, dal carattere notoriamente difficile.  Quando morì in gara, in  Argentina, il ferrarista Ignazio Giunti, era il 1971, scrissi un pezzo in cui muovevo qualche critica alla gestione della scuderia; non che adombrassi responsabilità dirette che, in effetti non c’erano…"

Il “Drake” se la prese.
"Ci rimase malissimo, anche perché non era un freddo manager; era stato grande pilota e ai suoi piloti era affezionatissimo, parlava la loro stessa lingua, aveva provato le stesse emozioni, corso gli stessi rischi. Chiamò l’editore del Carlino, con cui aveva confidenza e, nel corso di un brusco colloquio, chiese che fossi licenziato. Era una condanna, non si poteva contraddire Ferrari. Non solo il mio posto al Carlino ma la mia carriera erano a rischio. Il direttore del giornale, Carlo Pelloni, mi voleva bene. Non sapeva come muoversi, disse: vieni con me, proviamo a parlargli. Chiese un appuntamento a Ferrari, cosa difficile da ottenere a prescindere, immagina in una circostanza del genere…"

Attimi di palpitante emozione, sintetizzerebbe Bruno Pizzul.
"Proprio così. Dopo lunga attesa fummo ricevuti. Mi sedetti compostamente, rimasi zitto mentre Pelloni perorava la mia causa, Ferrari mi osservava come fossi un verme. Si giocava il mio destino. Pelloni disse, tra l’altro, che ero romagnolo. A quel punto Ferrari cambiò espressione, mi concesse di parlare. Poi tagliò corto e disse: andiamo a Fiorano a mangiare le tagliatelle! La faccio breve: mi prese in simpatia, ogni tanto mi concedeva un’intervista, quando divenni direttore di Autosprint a Fiorano, dove le Ferrari provavano, andai molte volte. Più avanti su Enzo Ferrari scrissi un libro, raccontando i nostri tanti colloqui. Fammi dire qualcos’altro sulla Romagna…"

Ne hai facoltà.
"Per me la Romagna è stata la mamma che mi ha insegnato tante cose, cui devo tantissimo. Ho ricevuto qualche riconoscimento, qua e là, ma non sai quanto sia orgoglioso d’essere stato nominato cittadino onorario di Sogliano sul Rubicone. E anche di Sant’Agata Feltria, che è diventata romagnola grazie a un referendum, perché, diciamoci la verità, tutti vogliono essere romagnoli! A Cesenatico ambientai il mio libro “Il capanno sul porto”, che scrissi ricordando la figura del Conte Alberto Rognoni, grande editore e dirigente sportivo, patron del Cesena. Potrei dilungarmi..."

Partecipasti ai lavori del Mar, il Movimento per l’autonomia della Romagna, se non sbaglio…
"Esatto. Conobbi persone simpatiche, animate da ottimi intenti. L’idea era quella di valorizzare le peculiarità romagnole: la bellezza del paesaggio, il patrimonio culturale, il talento e l’operosità della gente. Ogni discussione, alla fine, s’infrangeva, però, sulla scelta della eventuale capitale della Romagna, il campanilismo tra le quattro città prevaleva. Alla fine, mi convinsi che l’unica soluzione era proporre come capitale Bologna…"

Opzione sorprendente.
"Non più di tanto. Bologna guarda più alla Romagna che alla Emilia, carattere e modo di vivere dei bolognesi assomigliano più al nostro. La città delle Torri è sempre stata, storicamente, riferimento per i romagnoli. Per studiare, per l’economia, per la medicina. E Bologna ha sempre sentito la Romagna vicina. Ricordi Giovanni Spadolini?"

Storico insigne, fu Presidente del Consiglio.
"Fu anche mio direttore al “Carlino”. Mi spiegò che Leonardo Da Vinci intendeva costruire un canale che, partendo da Bologna, arrivasse a Cesenatico e aprirsi al mare. Era quella l’idea, sostenuta dalla governance bolognese di allora: Bologna raggiungeva il mare attraversando la Romagna, di fatto fondendosi con essa. Di quel progetto venne realizzato solo il porto canale che ancor oggi caratterizza Cesenatico".

Ti devo chiedere qualcosa di calcio, se no mi ritirano il patentino. Tra gli italiani, dimmi chi sono stati i più grandi: un portiere, un difensore, un centrocampista, una punta.
"Il portiere Dino Zoff, senza dubbio. Anche se ero a Mosca quando esordì in nazionale Buffon, che dovette sostituire Pagliuca, infortunato, nel primo tempo. Aveva diciannove anni, nevicava, fece subito una parata sensazionale. Si capiva che era un fenomeno".

Difensore.
"Sai che sono tifoso del Bologna, però indico Armando Picchi, capitano dell’Inter più forte della storia, nostra rivale per il titolo. Picchi inventò un nuovo modo di giocare in difesa. Anche se Scirea, Franco Baresi e Paolo Maldini erano eccezionali". 

Centrocampista.
"Ne indico due, sono stati forse i più grandi giocatori italiani della storia, in assoluto. Gianni Rivera e Roberto Baggio. Nessuno come loro, entrambi Pallone d’oro quando era un riconoscimento importante".

Punta.
"Fammi citare i bolognesi Harald Nielsen e Beppe Savoldi, fortissimi. Come non pensare a Gigi Riva? Ma credo che il più grande sia stato Pablito Rossi. Ha cambiato la storia della nazionale e del Paese: per anni, dopo il Mundial 1982, ovunque tu andassi nel pianeta, all’aeroporto quando mostravi i documenti ti parlavano di lui".

Hai menzionato gente dotata di testa superiore…
"Non sei campionissimo senza esserlo di testa. Come nella vita: puoi avere il talento che vuoi ma se non lo accompagni non arrivi da nessuna parte. Li ho conosciuti benissimo, erano fuoriclasse di etica e cervello. L’unico loro difetto era il non essere romagnoli. Nessuno è perfetto".

Grazie per la disponibilità, a nome dei romagnoli che leggeranno questo pezzo.
"Li abbraccio: av salut, burdell: siamo sempre i migliori!"

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