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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Beato tra i lupi

Torello da Poppi, antico eremita dei boschi, è compatrono di Forlì e delle sue famiglie. Chi lo ricorda?

Il 7 marzo 1761, papa Benedetto XIV confermava quale compatrono di Forlì il Beato Torello da Poppi. Pare evidente che questa figura sia oggi conosciuta soltanto da una stretta cerchia di addetti ai lavori in quanto la sua ricorrenza, fissata al 16 marzo, da queste parti passa inosservata. Eppure si tratta di un personaggio che, benché sfuggente, può ben rappresentare un tassello per asseverare il nome più opportuno di “Foreste Sacre” per il nostro Parco Nazionale, oggi comunemente chiamate “Casentinesi” in senso tanto estensivo da regalare l’intero territorio verde a una parte di esso.

Torello, infatti, accomuna Forlì ad Arezzo, ne rappresenta un legame fondamentale per le selve bellissime che fanno da confine tra Romagna e Toscana. Il suo culto, spinto dalla potente famiglia dei Torelli di Forlì che probabilmente con bonaria fantasia l’aveva ascritto all’albero genealogico, fu corroborato dall’azione dei vallombrosani di San Mercuriale, ordine religioso cui – a quanto pare – fece parte. L’inclita stirpe – che in seguito confluirà nei Guarini e a essi andrà il palazzo tra corso Garibaldi e via Torelli - vantava già un Venerabile: padre Girolamo Torelli (1537-1571), adolescente fuggito da casa per diventare cappuccino, morto a nemmeno trent’anni. 

Il settecentesco compilatore de “I lustri antichi e moderni della Città di Forlì” non avanza dubbi: “Sebben nato in Toscana, è stato riconosciuto come un germoglio dell’arbore forlivese dalla stessa sacra Congregazione de’ Riti sotto li 28 gennaio 1752 nel Decreto, in cui concede la Messa, e l’Offizio alla Città di Forlì, la quale anche nel presente anno 1755, con unanimi voti de’ Consiglieri, l’ha acclamato per uno de’ suoi Protettori”. Torello era dunque originario di Poppi, località del Casentino, di buona famiglia: visse tra il 1202 e il 1282, un lungo cammino terreno per lo più trascorso in solitudine, fatta eccezione di qualche lupo che spesso lo accompagna nelle raffigurazioni. 

Faceva parte della piccola aristocrazia locale, Torello figlio di Paolo, e trascorse un’adolescenza turbolenta. Si dedicò a spese voluttuarie e a piaceri propri dei benestanti, viziati e spensierati. Licenzioso e capriccioso, cambiò vita quando un giorno, in una di quelle scorribande da giovinastri, un gallo volò sul suo braccio destro e cantò tre volte. L’imprevisto lo destò dal sonno del vizio e il gesto del volatile crestato, simbolo evangelico e – perché no – romagnolo, lo indusse a vendere tutti i suoi beni per donarli ai poveri. Dopo ciò, s’inoltrò nei boschi del Casentino alla ricerca di un rifugio. Il giovane decise di abitare per trent’anni una grotta nascosta nella foresta, vivendo in modo severo e frugale, dormendo su un masso. I più accorti, nel leggere queste ultime righe, avranno subito avvertito un’eco delle vite di San Francesco o di San Romualdo, o ancora di San Giovanni Gualberto, fondatore dell’ordine di Vallombrosa. 

Il nobile rampollo divenne dunque selvatico, rifiutando la mondanità del borgo e l’agio del censo, ingaggiando una battaglia personale e senza sconti col demonio. Seguito da un abate di Vallombrosa, suo padre spirituale, vestì con un saio scuro come un frate ricusando, almeno in una prima fase, di entrare a far parte di un ordine monastico. Il rifiuto del mondo e la ferrea disciplina lo resero un vegano “ante litteram”: la sua dieta era costituita d’orzo e legumi, niente carne, né olio, cacio e uova. Per reprimere l’ardore giovanile si gettava nell’acqua gelida o in un roveto di spine. Fu amico dei lupi (chissà quanti ne incontrò), la sua capacità di renderli mansueti ne delinea il carattere di mediatore tra il Creatore e il creato, forte del dominio di sé e della natura. Nelle sue foreste l’asceta divenne esorcista ed ebbe un certo richiamo tra le genti del luogo. Sorse quindi una controversia: una figura così sfuggente era davvero ascrivibile all’ordine vallombrosano o poteva definirsi un eremita “sciolto”, o ancora era un terziario francescano? Pare vincente la prima ipotesi, e divenne protettore di questa congregazione, nonché delle diocesi di Forlì e di Arezzo. 

Per i suoi contemporanei era un sant’uomo ma la Chiesa tardò a rendergli gli onori dell’altare: il culto venne riconosciuto e autorizzato solo nel 1742. Grazie all’influenza dell’abbazia forlivese di San Mercuriale, allora tenuta dai monaci vallombrosani, il Beato (talora è chiamato anche Santo) fu assegnato definitivamente a quest’ordine. A ben vedere, in alcune chiese forlivesi vi sono raffigurazioni del Beato (qui s’invita quasi a una caccia al tesoro): in genere lo si vede come un anziano con la barba bianca, rosario e bastone accanto a un lupo. Appartiene alla Pinacoteca una tela ovale che lo rappresenta, opera di Giuseppe Marchetti, sperando che non sia stata alluvionata in un deposito sciagurato. In essa, Torello è chiamato “mulieribus parientibus singolare praesidium”, cioè protettore speciale per le donne partorienti, ma anche per le famiglie e per i fanciulli. 

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