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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La cospirazione del Venerdì Santo

Nel 1486, seicento forlivesi tramarono contro Girolamo Riario ma la repressione del Guercio d'Ancona rese vano l'intento: l'uomo con l'agnello fu impiccato

Un giorno lontano comparve, in mezzo alla grande piazza di Forlì, un uomo con un agnello sulle spalle. Una figura simile a una statuina del presepio, tanto che perfino in quel 1486 meritò attenzione. I più, veramente, non ci fecero caso visto che sembrava che volesse vendere la bestiola (era pur sempre periodo di Pasqua) mentre i più smaliziati lo tenevano sott'occhio. Era il 29 marzo, così racconta il cronista Novacula, e si sa che costui si chiamava “Antonio Butrigelle” (per Cobelli è “Antonio Boltrichello") originario di “Forlivio in Popole”. Egli, in realtà, abitava “in suso al teritorio de Ravena in logo dito al Samterno”. Queste informazioni si sanno, e saranno eternate nella carta, perché poco dopo questa singolare apparizione sarebbe stato arrestato. Si guardi l'anno in questione: al potere c'è Girolamo Riario che evidentemente da queste parti era mal sopportato. I forlivesi, infatti, avrebbero tanto desiderato vedere al suo posto Antonio Maria Ordelaffi ma il vero proprietario, il Papa, preferiva suo nipote, il Riario, appunto. La giovane moglie Caterina (Sforza) aveva dato prova di carattere a Roma ma finora a Forlì stava in attesa, presagendo che prima o poi i forlivesi avrebbero ammazzato il suo Girolamo. 

Per questo motivo si trovava da qualche anno in Città l'ormai cinquantenne Giacomo Bonarelli da Ancona. Inizialmente era stato nominato Podestà di Forlì e dal 1483 venne scelto quale Governatore di Romagna: un po' prefetto, un po' sceriffo, un po' macellaio nel senso deteriore del termine. Un figuro che già alla vista destava paura: guercio e corpulento, oltre a esser privo di un occhio pareva davvero privo di scrupoli. Pur tuttavia, portava “lo stendarde dela santa iusticia”. Dotato di fama e lunga esperienza, vantava ottime referenze in quel di Milano al servizio di Galeazzo Maria Sforza; Novacula non dice di più, non osa esporsi. Lo farà Leone Cobelli che lo definisce “homo maligno, crodeli e perfido”. Del resto era noto in tutta Italia come uomo d'arme e d'ordine: per chiunque era il Guercio d'Ancona. La sua azione di polizia fu spietata, le cronache di quegli anni abbondano di imprigionamenti, forche e supplizi orrendi che caddero su quei forlivesi che risultavano complici del fantasma di Antonio Maria Ordelaffi, il Signore bramato ma in esilio per ragioni di nepotismo romano. Le prime vittime furono due religiosi di San Francesco Grande: fra Martino e fra Nicolò. Antonio del Guelfo, conestabile della Porta San Pietro, li aveva accusati di favorire un'insurrezione a vantaggio di Antonio Maria Ordelaffi tramite un intricato rapporto epistolare.

Con loro caddero sotto lo sguardo severo della giustizia pure “madonna Francesca” moglie del tintore Alessandro Aliotti, già balia dell'Ordelaffi, e “madonna Zohanna”, moglie di Ciaccarino “maistro de ligname”. Tutti costoro sarebbero stati impiccati alle finestre del Palazzo del Podestà “sencia legere processo né condannasone”. Cobelli che non nasconde una forte riprovazione per questo governo, definirà tali atti come “gran crodeltate” e così aggiunge: “Questo Bonarello è pegio che el vescovo”. La retata continuò e fioccarono le esecuzioni sotto cui caddero Matio Peloso, Landa tintore, Spatazino. Poi morì papa Sisto IV, zio di Girolamo Riario e suo protettore, e il susseguirsi di cappi al collo sembrava placato. Al contempo i cittadini forlivesi vennero investiti da un aumento dell'imposizione fiscale che non fece altro che gettare benzina sul fuoco. Le congiure, in questi anni, furono all'ordine del giorno, come quella dei Roffi e più tardi, e definitiva, quella ordita dagli Orsi. Leggendo le cronache antiche si scoprono inoltre personaggi di varia estrazione con nomi anche popolari che meriterebbero un approfondimento a se stante, magari un'altra volta. 

Dunque, il nostro uomo con l'agnello sulle spalle aveva stuzzicato la curiosità maliziosa di “Bartolomio già de Zuliano de Marixe”. Costui si prese la briga di correre dal Riario che stava riposando “in la sala granda a una de quele finestre che sone sopra la piaza”. Una breve parentesi: si scorge più volte tra le carte il ritratto del Signore pensoso al balcone scrutante la grande piazza (qui stava schiacciando un pisolino), consapevole di amministrare una Forlì difficile, piena di personaggi che avrebbero voluto farlo fuori. Insomma, Roma era con lui: ma Roma restava così lontana (e lo zio Papa era morto un paio di anni prima). Da quella stessa finestra sarà gettato nel momento della congiura che portò, due anni dopo, alla fine della sua vita.

Questo Bartolomeo (definito “uno nostre forlovexe”) raggiunse facilmente Girolamo Riario e così, con somma naturalezza, lo scosse dal sonno: “Vediteve colui ch'è là in dita piaza, che à quele agnelle in spalla?”. Il Signore diede uno sguardo fuori dalla finestra e confermò quasi in dialetto: “Sì, al vego”. Il cittadino attento lo avvertì: “Fatile piare perché l'è uno gram vostre nemico”. Insomma, sollecitò che fosse pigliato, cioè arrestato (chissà cosa sapeva) e fu creduto subito, tanto che il “Conte al fe' piare”. La storia consegnata dai due cronisti citati non ci dice altro di questo Bartolomeo se non che aveva visto giusto, infatti l'uomo dell'agnello venne "molto esaminato" e fu scoperto latore di lettere contenenti indicazioni per sollecitare una rivoluzione (o restaurazione) urbana. Balzò all'evidenza che aveva un grave precedente: il 18 dicembre 1480 era stato arrestato dal bargello e imprigionato per un mese nella Rocca di Ravaldino, quindi esiliato nelle Marche e lì stette fino al 25 marzo 1481 cioè quando “la Signoria dal Conte ie fe' gratia, e vene a casa”. I motivi erano sempre gli stessi: ostilità totale al Riario e fedeltà assoluta agli Ordelaffi che da qualche mese, morto Pino III, avevano perso Forlì.  

Come in un episodio de "La signora in giallo", il reo, una volta portato davanti al bargello, confessò subito tutto, consapevole - tra l'altro - di quanto fosse asperrimo il sistema penale del tempo. Si seppe dunque che il 24 marzo, Venerdì Santo, circa seicento persone fedeli ad Antonio Maria Ordelaffi, figlio di Cecco il fratello di Pino III, stavano cospirando: “tute costore insemo” sarebbero dovute entrare “per la nostra porta de Sam Piero et amazare al Contestabile e piare dita porta”. Ciò, come sospettato da tempo, sarebbe dunque partito dalla propaggine di Forlì che dà verso Ravenna, là dove, al termine dell'attuale corso Mazzini, si ergeva una porta medievale con annessa rocchetta. Tali strutture di un certo pregio e di sicura importanza storica vennero smantellate già a metà del Settecento mentre ciò che era rimasto sarà atterrato nel 1862 per innalzare la Barriera Mazzini. Il piano dei cospiratori del Venerdì Santo prevedeva poi di “intrare in dita cità ed amazare al prefate Conte e tòriie dita cità”. Insomma: un vero e proprio colpo di Stato a favore del bandito rampollo Ordelaffi. Se poi ciò non fosse accaduto, come minimo era in programma di mettere “case a sacomanne” (cioè saccheggio) e “amazare le molte homine”. A questo fatto Leone Cobelli non dedicherà spazio come per contro fece Novacula, si limiterà a dire che l'arrestato “portava lectere qua in la nostra citate de Forlivio ad alcuni per parte d'Antoni Hordelaffo contro lo stato del signore conte Gerolimo” e per questo “finse portare uno agnello al mercato”. Il Podestà, manco a dirlo, lo definì “vere traditore”. I forlivesi videro fabbricare la forca fuori Porta San Pietro e lunedì 13 aprile di quel 1486 il cospiratore forlimpopolese venne impiccato. 

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