rotate-mobile
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Breve racconto della lunga storia d’amore tra romagnoli, negozi e commercianti. Capitolo primo

Dagli anni cinquanta agli anni ottanta, in Romagna si usciva di casa ogni giorno e quasi ogni sera, negozi e bar dislocati ovunque, spesso a due passi da casa, costituivano meta obbligata

Fu dagli anni cinquanta del novecento che il commercio divenne attività economica davvero rilevante, decisiva per la creazione del PIL della nostra terra, praticata da una considerevole fetta della popolazione romagnola e aperta a una clientela talmente vasta da essere identificata con l’intera popolazione. Diversi e concomitanti fenomeni sociali ed economici contribuirono all’allineamento favorevole dei pianeti. Un benessere diffuso, mai visto nei decenni e nei secoli precedenti, cominciava a generare, finalmente, tranquillità per l’immediato e fiducia nel futuro.

Ceti sociali che non si erano potuti permettere altro che una decorosa, talvolta faticosa, sopravvivenza, si aprivano al consumo di beni non alimentari e non essenziali che, non a caso, erano definiti voluttuari: abbigliamento, prodotti per la valorizzazione della persona, elettrodomestici, giochi per l’infanzia, libri e dischi, articoli per la casa e il tempo libero, per la mobilità e la vacanza, etc. Si cominciava a delineare l’idea di qualità della vita, espressione  sostanzialmente sconosciuta in precedenza e, comunque, riservata ai ceti abbienti. L’acquisto di beni, ad uso quotidiano o durevoli, faceva parte a pieno titolo, nel sentire collettivo, della nuova e popolare qualità della vita, con annessi sogni, aspirazioni e voluttà.

Si creava ricchezza, in Romagna, grazie alla diffusione della impresa agricola, allo sviluppo industriale e turistico, alla crescita dell’artigianato e della cooperazione. Le famiglie si ritrovavano soldi da spendere e i nuovi mezzi di comunicazione, la televisione in primis, attiva dalla fine degli anni cinquanta, diffondevano i messaggi accattivanti della rinvigorita industria. Nasceva un termine nuovo: consumismo. Che oggi è declinato frequentemente in negativo ma che al tempo faceva rima con ottimismo. Nuova e diffusa ricchezza era alimentata dal volano del commercio e si propagava alle numerose categorie professionali che ruotavano attorno al lavoro dei commercianti.

Nell’affascinante avventura del commercio si buttarono in tanti, aggiungendosi a coloro che, per ragioni familiari, lo praticavano in precedenza. I nuovi commercianti erano contadini non più soddisfatti, donne e uomini espulsi da fabbriche giunte al proprio tramonto, i tanti giovani che s’affacciavano al mondo del lavoro con l’intraprendenza di chi progetta per se un futuro migliore di quello dei genitori. C’era posto: le regole non erano troppo stringenti, occorrevano disponibilità ad orari prolungati, attitudine al dialogo e al rispetto del prossimo, alla parola data, propensione al rischio d’impresa. Se disponevi di quelle doti, e di un po' di fortuna, il commercio ti apriva strade inesplorate. 

Il commercio divenne, tra le città e i borghi della Romagna, il comparto economico più vicino al sentire popolare, quello a più alto tasso d’empatia e socializzazione. Certo, il prestigio del mondo industriale era fuori discussione, il comparto agricolo manteneva radici nel sentire collettivo dei romagnoli, l’artigianato ebbe in quel periodo grande e fortunata diffusione, ma il commerciante era il tuo interlocutore quotidiano e costituiva riferimento certo per qualsiasi famiglia. Non era raro raccogliere la confidenza di un negoziante che diceva: questo è il migliore lavoro possibile, in virtù della empatia che muove. Ovviamente, il termine empatia lo utilizzo adesso, allora nessuno se ne serviva, ma ci siamo capiti. Era anche mestiere discretamente remunerativo: il titolare di un negozio del centro cittadino a Faenza o a Cesena entrava progressivamente a far parte della buona borghesia locale, ma anche un collega che operasse a Riolo Terme, a Santa Sofia, a Sarsina o a Misano era in grado di mantenersi e di accendere il mutuo per la costruzione di una villetta unifamiliare. Nacque una classe sociale solida, quella dei commercianti, rispettata da chiunque, considerata e persino “temuta” dai politici: bar e negozi costituivano luoghi ad alta concentrazione umana, in grado di amplificare consenso e, malauguratamente, dissenso.

Anche per la clientela, cioè per tutti (non v’era chi non fosse frequentatore dei mille e più mille negozi aperti al pubblico), furono anni belli. Dagli anni cinquanta agli anni ottanta, in Romagna si usciva di casa ogni giorno e quasi ogni sera, negozi e bar dislocati ovunque, spesso a due passi da casa. costituivano meta obbligata. Nei borghi, ove l’economia procedeva più lentamente e ai ceti meno abbienti talvolta difettava liquidità, i negozi concedevano abitualmente credito. Soprattutto nei negozi alimentari era d’uso comune il quadernino a quadretti ove il commerciante annotava il credito, regolarmente saldato a tempo debito, al momento di ricevere  lo stipendio o il compenso per un affare concluso. Ma anche nell’extra alimentare frequentemente si vendeva sulla fiducia, se il cliente era conosciuto. Il sistema fiscale, non particolarmente invasivo nei confronti dei commercianti, consentiva all’interno dei negozi una benevolenza nei confronti della clientela che risultò fondamentale per tante famiglie. Ciò avveniva anche nelle periferie cittadine, che andavano sempre più dilatandosi per via della impetuosa espansione urbanistica ed erano servite da un gran numero di negozi di vicinato. 

Commercianti e clienti parlavano la stessa lingua, quella della solidarietà. Il rapporto era diretto, il nome del negozio poteva essere dimenticato ma non il nome del commerciante: che si trattasse di un formaggio, di un paio di scarpe o di una macchina da cucire, la garanzia sul prodotto era rilasciata, con un sorriso, dal titolare. Era frequentemente quel sorriso a farti tornare, non complesse attività di marketing, che, del resto, erano poco frequenti, se non del tutto sconosciute.

Non descrivo quelle atmosfere con accento bonario o condizionato dalla lente della nostalgia, è un fatto che dentro quei negozi c’erano colori, sapori, incontri, convivialità che caratterizzavano in positivo la giornata, e la stessa esistenza, di commercianti e clienti. Ci sarebbero mille aneddoti da raccontare, in proposito; qui non c’è spazio ma non è detto che una volta o l’altra non lo faremo in questa rubrica domenicale. 

Quanto erano frequentati quei negozi e quanto concorrevano alla socialità collettiva? Per descriverlo con un solo esempio basta rammentare che, negli anni settanta e ottanta, soprattutto il sabato, piazze e strade dei centri storici di Ravenna, Forlì, Faenza, Rimini, Cesena, erano letteralmente prese d’assalto da tantissime persone di generazioni diverse che s’affollavano davanti alle vetrine. Non sempre per acquistare, spesso solo per osservare, per avere l’occasione di incontrare conoscenti, amici, sconosciuti, attirati anche loro in centro dalle vetrine, dalle luci, dalla suggestione del possibile, agognato, acquisto. Ne scaturivano partite di chiacchiere, appuntamenti, nuove conoscenze ed amicizie, sensazione d’esser parte di una comunità; talvolta si dimenticava la propria casa e ci si fermava  a mangiare una pizza per attendere l’apertura serale di uno dei tanti cinema. Atmosfere che gli odierni centri commerciali non a cielo aperto, tendono a riproporre, lo sappiamo. E’ la stessa cosa?  Di questo diremo.

E fuori dai centri storici nelle periferie e nei borghi? Quella capillare rete di negozi assicurava condivisione sociale, sicurezza percepita, presenza di punti di riferimento. Non è retorica affermare che, pur rimanendo luoghi d’impresa e di ricerca di legittimo guadagno, gran parte di quei moltissimi negozi, costituivano presidio sociale. Per di più, davano lavoro, direttamente, a un formidabile numero di dipendenti e di familiari del titolare. Lo scrivo perché ai giorni nostri qualcuno sostiene che siano esclusivamente le grandi strutture di vendita a garantire occupazione. Ma la realtà è che, quando le piccole imprese commerciali erano solide e competitive, assicurano una notevolissima forza lavoro. Chiedetelo ai vecchi responsabili degli uffici paghe delle associazioni dei commercianti, ne avrete conferma.

Era, quel modello di distribuzione, inappuntabile, privo di difetti, scevro da limiti e contraddizioni? Alessandro Manzoni, che con la penna e con la Storia se la cavava assai meglio di me, avrebbe scritto: ai posteri l’ardua sentenza. Quel che sappiamo per certo era che né i commercianti né la larghissima maggioranza dei clienti lo metteva in discussione. Le cose, pur tra mille discussioni (allora le riunioni tra commercianti, anche pubbliche, per affrontare temi d’interesse di categoria o collettivi, erano frequentissime, spumeggianti, e molto partecipate), abitualmente riportate dai giornali locali, procedevano con discreta soddisfazione. Si, qualche studioso segnalava possibili modelli alternativi, quello francese, quello tedesco, quello nord americano. Si magnificava la modernità di forme distributive diverse che, in realtà, pochi conoscevano davvero.

C’era, in Romagna, tra le classi dirigenti delle categorie economiche, dei comuni, delle camere di commercio, delle province, della regione, un dibattito culturale attorno a non meglio definiti centri commerciali, a iper mercati, a grandi superfici di vendita, già timidamente presenti in Lombardia e Veneto. Si agitavano, in quei dibattiti, la necessità di offrire maggiori opportunità ai  consumatori, soprattutto da parte del potere politico locale che, va detto, non si scapicollava per favorire le tantissime piccole imprese commerciali. Erano, i commercianti, difficili da omologare: costituivano un popolo individualista, irrequieto, ma anche profondamente rispettoso dei principi del vivere collettivo. Chi, più di loro, era abituato ad ascoltare, a percepire attese e proteste di persone e famiglie? 

Insomma, la necessità di costruire modelli di distribuzione commerciale alternativa, era percepita, a ragione o a torto, più da èlite politiche ed economiche (non carico il termine èlite di significato negativo o ironico) che dal sentire comune. Ma la pentola, evidentemente, bolliva. Fu sul tramonto degli anni ottanta che un manager prese a incontrare i ceti dirigenti per promuovere, e ottenere le complesse autorizzazioni, la costruzione di grande centro commerciale nei pressi di Savignano. La Storia sterzò.  Per oggi abbiamo finito, grazie dell’attenzione. Il seguito, se vi andrà, lo leggerete una delle prossime settimane. Buona domenica, alla prossima.

Si parla di

Breve racconto della lunga storia d’amore tra romagnoli, negozi e commercianti. Capitolo primo

ForlìToday è in caricamento