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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

"Caro Babbo Natale, noi in Romagna crediamo in te: portaci la libertà da questo virus"

La lettera a Babbo Natale di Mario Russomanno

Caro Babbo Natale,
ti scrivo, fermamente convinto che tu esista. Ultimamente c’è chi afferma che sei un’invenzione della pubblicità, ma noi, in Romagna, crediamo in te. Abbiamo la testa dura: ci siamo affezionati a te da bambini, ci capita di pensare: magari quella cosa me la portasse Babbo Natale! Ciò che dovresti portarci, il più in fretta possibile, è la libertà da questo virus che da due anni ci fa ammalare, ci ammazza, ci impoverisce, e, perfino, ci divide tra chi la pensa in un modo o in un altro. Non ne possiamo più. 
Per il resto, ci arrangiamo. Tu sai che, abitualmente, ce la caviamo.

Sai quanta strada abbiamo fatto: eravamo contadini talmente poveri che, quando una figlia si sposava, per poter organizzare il pranzo di nozze nell’aia, occorreva andare a credito dal padrone del podere e ci volevano anni per saldarlo, quel debito. Oggi, lo affermano i premi Nobel per l’economia, la Romagna è uno dei luoghi al mondo ove la qualità della vita è migliore, ma un tempo non c’era neppure da mangiare. Ma qui nacquero le prime leghe socialiste e repubblicane, le società di mutuo soccorso operaie, le cooperative. I contadini cattolici si riunirono attorno alle casse rurali. La gente prese l’abitudine di stare assieme, organizzarsi, condividere problemi e aspettative. E poi, a riunioni finite, tutti a far festa con il ballo! Tu, caro Babbo, hai certamente sentito parlare del liscio e della musica romagnola: forse non sai che nacquero in quel modo, nelle aie e nei capannoni, e poi divennero colonna sonora della nostra terra, diffusa ovunque nel mondo.

Da allora i romagnoli non si sono persi d’animo. I corsi e ricorsi della economia, i cambiamenti e le crisi, non li hanno avviliti: si sono rimboccati le maniche e hanno aguzzato l’ingegno. Ti faccio qualche esempio.  Nel secondo dopo guerra, in pochissimo tempo, pescatori e contadini allestirono un distretto balneare, dal riminese ai lidi ravennati, che divenne, dal nulla, il più frequentato in Europa. Mare, buona cucina, sorrisi, allegria, musica. Fu una specie di miracolo: in riviera dimenticarono la miseria sofferta e tanti, dalla pianura e dalle colline, trovarono lavoro. D’improvviso il mare, per via di una cosa che si chiamava mucillagine, divenne inguardabile e impraticabile: sembrava la fine di tutto, invece i romagnoli s’inventarono, in quattro e quattr’otto, il “divertimentificio”. La riviera divenne un immenso parco giochi con attrazioni per famiglie, discoteche avveniristiche, concerti, cinema in spiaggia, ristorazione d’avanguardia, culto del vino, parchi tematici, luoghi storici visitabili di sera, etc: i turisti continuarono a venire, dimenticandosi del mare. In Romagna si vendeva un sogno esistenziale senza il mare, ci voleva gran talento per riuscirci.  Prova, Babbo, a togliere il mare alle coste croate, spagnole, nordafricane, che vanno tanto di moda. Vedrai che in poco tempo si svuotano.

E quando chiusero le fabbriche, con le ciminiere che svettavano all’interno delle città, le fabbriche che per un secolo avevano assicurato il pane alle famiglie? C’era angoscia, pareva che le città fossero alla fine. Invece, gli operai licenziati divennero artigiani, le loro mogli aprirono negozi nelle strade. Una rivoluzione: sai, Babbo, cominciarono decenni in cui, il sabato, nei centri storici, faticavi a camminare da tanta gente che c’era a prendere d’assalto i negozi!  Intanto, nelle aree artigianali, crescevano i capannoni: gli ex operai delle fabbriche inventarono prodotti e impararono a venderli; la Romagna divenne regina d’Italia in diversi settori, uno per tutti quello del mobile imbottito.  E quando i contadini non riuscirono più a piazzare i loro prodotti perché la filiera distributiva era diventata troppo lunga per le loro forze? Pareva la fine di un mondo. Invece, le cooperative allargarono strategie e orizzonti. Raccolsero i prodotti dei contadini e presero a lavorarli in modo da poterli offrire in Italia e all’estero. Lo sai, Babbo, che frutta e verdura cesenati sono sulle tavole di tutta Europa? Che tra Forlì, Faenza e Lugo, operano la prima e la terza azienda italiana di produzione vinicola. Che i nostri avicoltori sono tra i primi in Italia e in Europa?

Potrei farti altri esempi, Babbo, ma non ti voglio annoiare. Potrei aggiungere, ad esempio, che in poche aree del mondo esiste una rete volontaria di sostegno ai meno fortunati, come c’è in Romagna. Oppure potrei dirti che qui c’è una concentrazione di cinema, teatri, sale da concerto, musei, biblioteche storiche, che non eguali. Che ciascuno dei nostri mille piccoli comuni organizza sagre affollate, che la gente non sta chiusa a rimbecillirsi di televisione e facebook, guarda dall’alto quanta gente cammina e scorrazza in bici.  Ma sono cose che già sai, Babbo.  E sai che a uno sviluppo tanto impetuoso hanno concorso in modo decisivo le donne di Romagna. Per spiegarti di che pasta sono fatte, mi basta condividere con te un ricordo.  Quando facevo la quarta elementare, una sessantina d’anni fa, abitavo in un paese ove c’era un canale ai cui bordi erano situati singoli stalli di pietra immersi nell’acqua per un metro circa. Le donne vi scendevano per lavare panni e stoviglie nel canale. Arrivavano dopo pranzo o nel tardo pomeriggio, quasi tutte lavoravano nelle fabbriche del paese, ove si facevano impermeabili e salotti.

Arrivavano con addosso i grembiuli di fabbrica, a tinta unita verde o azzurra, dopo avere messo a tavola mariti e figli. Erano allegre, la fatica non pesava, ricordavano la fame patita dai loro genitori e si sentivano fortunate. Ridevano, parlavano ad alta voce da uno stallo all’altro, raccontavano, rigorosamente in dialetto. Il mio amico, Glauco, ed io, stavamo a riva con la canna da pesca. Nelle nostre case non si parlava abitualmente dialetto, ascoltandole imparavamo lingua e modi d’essere. Le voci di quelle donne parevano musica; quel che dicevano, i giudizi che esprimevano, i racconti familiari e di lavoro, le battute fulminanti, erano per noi scuola di concretezza. Eravamo troppo bambini per accorgerci che erano anche belle; fossimo stati più grandi avremmo irresistibilmente respirato le attrattive di quei sorrisi, il frusciare di quei grembiuli.

Perché, Babbo, le donne romagnole sono toste, coraggiose e interessanti quanto altre non riuscirebbero neppure vivendo mille anni. Protestano ma non si lamentano, indicano la strada quando noi maschi siamo nella nebbia. Figlie e nipoti di quelle donne sono parrucchiere, medici, insegnanti, psicologhe, stiliste, poliziotte, imprenditrici, pallavoliste, cassiere, cubiste, libraie, ragioniere, assessore. Hanno fatto quel che volevano, continueranno a farlo. Babbo, le nostre donne sono una garanzia. Se hai dei dubbi su di noi, con loro puoi stare tranquillo; ricorda le lavandaie sul canale, la loro fiduciosa allegrezza.

Caro Babbo Natale, occupati di spazzare via il covid, se ti va di darci una mano. Al resto pensa la gente di Romagna, fidati. Di cose da fare ce ne sono tante, c’è da ricostruire un pezzo di mondo, ma ce la faremo. Un abbraccio affettuoso e grazie a prescindere.

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