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Martedì, 30 Aprile 2024
La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

I miei settant’anni in Romagna: com’era ai tempi di infanzia e adolescenza

Chi vive in Romagna non ha troppo bisogno di vacanza. Conoscere il mondo è fondamentale, ma da noi non manca proprio nulla. Difficile trovarsi meglio che dalle nostre parti

Dopodomani compirò settant’anni. Nacqui a Rimini nel 1954, da un forlivese asciutto e da una donna dagli occhi blu di Portico-San Benedetto. Mi faccio un regalo: poiché non sono certo che dopo i settanta i miei residui neuroni terranno botta, provo a ricordare com’era la Romagna ai tempi di infanzia e adolescenza. Nulla di storico-sociologico, solo qualche disordinato flash di memoria.

Venni al mondo in una struttura sanitaria allocata nei pressi del Ponte di Tiberio, la stessa nella quale vent’anni prima era stata abbandonata, neonata, colei che sarebbe diventata mia suocera Caterina. Non seppe mai chi fossero i suoi genitori, che non trovarono di meglio che lasciarla silenziosamente alle suore. Venne adottata a due anni da una modesta e generosa famiglia di Meldola, visse con disciplina e mise al mondo quattro belle figlie che amò ostinatamente. Caterina, figlia naturale di riminesi, crebbe, dunque, a Meldola, borgo forlivese pedemontano che nulla, per storia e allocazione, aveva a che fare con Rimini. Una decina d’anni dopo la mia nascita i miei genitori si trasferirono pure loro a Meldola, paese di cui prima poco sapevano. Io, senza conoscere questa storia, a ventuno anni m’innamorai della figlia diciassettenne di Caterina. Il destino fa giri strani e per me fortunati. Ero rospo, la figlia di Caterina volle credermi principe e accettò di mettersi con me. Mi coccola tutt’ora.

Passiamo alla Romagna di allora. A Rimini la spiaggia era solo parzialmente presidiata da stabilimenti. Pensate che si giocavano partite di calcio nello spazio libero tra le cabine (pochissime, rispetto ad ora) e il lungomare. E che non c’erano ombrelloni. Per ripararsi dal sole si utilizzavano le tende, drappi a guisa di vele fissati al suolo con tiranti. Solo sul finire degli anni cinquanta le tende cominciarono a essere soppiantate dagli ombrelloni, molto più gestibili. Le tende dovevano essere spostate più volte nel corso della giornata, per potere garantire ombra. Ricordo Serafino Bianchi e sua moglie Antonia, storici conduttori della zona 24 di Marina Centro, piegati dalla fatica, indirizzare una ad una le tende verso il sole. Serafino, alto e atletico, era stato pescatore. Nuotatore provetto, al termine della guerra era stato incaricato di vigilare i soldati americani che facevano bisboccia, s’ubriacavano, e spesso cadevano in mare dalla banchina su cui erano aperti i bar. Serafino li ripescava e guadagnava qualche soldo. Mi raccontava la fame che aveva patito da ragazzo; così sua moglie, la bella Antonia, contadina della zona del Po, che mi spiegava d’essere cresciuta a verdure di campo e polenta. 

Questa cosa della fame, cari giovani, metabolizzatela. Fino agli anni sessanta, in tutta la Romagna due argomenti erano ricorrenti. La fame atavica patita prima della guerra e quella emergenziale affrontata durante e dopo la guerra. Fame vera, sgominata (non è verbo pertinente ma mi piace) dal boom degli anni sessanta e dalla distribuzione solidale di ricchezza che la governance romagnola seppe organizzare, originando uno dei distretti economici più evoluti al mondo. 

Ho fatto cenno al calcio. Giocavano tutti, nei cinquanta e sessanta. Per strada, nelle piazze, nelle piccole radure, sull’erba, sulla ghiaia, sulla sabbia, sul cemento. A Modigliana, Talamello, Sarsina, Santa Sofia. Fatevi un giro, scoprirete centinaia di campetti abbandonati. Le bambine erano arbitrariamente tenute in casa o nei cortili, i maschi erano a inseguire un pallone non di cuoio (costava troppo) sull’unico paio di vecchie scarpe. Di bambini in casa, nella Romagna dei cinquanta e sessanta, non ce n’erano. Si viveva in strada: nessuno era depresso, la prepotenza dilagava ma non si chiamava bullismo, ci si menava, talvolta finiva a sassate e il giorno dopo si ricominciava.

I luoghi di aggregazione erano dietro ogni angolo, lo sapete. Una cosa che pochi rammentano, invece, è la questione scout-pionieri, indicativa del clima dell’epoca. Conoscete i boy scout, collaterali alle parrocchie. Non indossavano le odierne sgargianti camicie azzurre ma divise cachi, retaggio della  vocazione militare del fondatore del movimento, il generale inglese Robert Baden-Powell. Gli scout garantivano proselitismo al messaggio cattolico, alla Democrazia Cristiana e ai suoi alleati di governo. La cosa non andava giù al Partito Comunista che, nelle regioni in cui era dominante, Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, provò la contromossa. Fondò il movimento dei pionieri, ragazzi che si richiamano a valori ambientalisti e avventurosi del tutto simili a quelli degli scout, partendo però da una visione classista della società. Ricordo il periodo della contrapposizione, effettiva in Romagna. Non ci furono mai scontri, ma ci si guardava in cagnesco. Il movimento dei pionieri, comunque, ebbe vita non più lunga di un decennio.

I ragazzi andavano fuori di testa per la moto. Fenomeno non assimilabile all’odierno tifo seduto per Valentino o Pecco Bagnaia. Ciascun ragazzino aggiustava una propria seppur sgangherata moto. Di piccola o piccolissima cilindrata. Il traffico su gomma, assieme al capolavoro di Secondo Casadei, “Romagna mia”, incisa nel 1954, fece sì che gli adulti romagnoli si conoscessero e si identificassero come orgogliosi abitanti di una comune e splendida terra. I ragazzini azzerarono le distanze con i motorini: riadattati, truccati, mascherati da moto ruggenti. C’era una officina aperta ogni  mille metri, il meccanico che dispensava consigli era considerato un guru. Ricordo interminabili simposi, che avevano qualcosa di esoterico, attorno all’utilizzo di una marmitta o allo stacco del gas in una curva.

I motorini, alla fine dei sessanta, segnarono anche, finalmente, il riscatto delle ragazzine. Avevano nomi gentili: Ciao, Farfallino, Bravo, College, etc. Consentirono alle femmine autonomia, possibilità di muoversi dopo secoli di limitazioni territoriali e dipendenza. Prima dovevi avere un moroso per muoverti, ora non più. Non andavano forte, quei motorini, non erano truccati, ma vi garantisco che, con le loro passeggere, catalizzavano più attenzioni di una Yamaha 500.  L’altra cosa che riunì femmine e maschi, in Romagna, alla fine dei sessanta, fu il cinema. Ci furono anche le balere, lo so, ma a ballare andavano i più grandicelli.

Tutti, vecchi, giovani e bambini, andavano al cinema, ipnotico strumento di svago e conoscenza. Sale e arene erano ovunque. Nelle città, nei villaggi, nelle parrocchie, nei dopolavoro, nelle sedi dei sindacati e dei partiti. Mamme con bambini, comitive adolescenti, morosi sbacucchianti in galleria, uomini che trascuravano marafone e scala quaranta per vedere polpettoni mitologici con odalische seminude. Il cinema era mito. Quando a Forlì nel 1965 arrivò “Per un pugno di dollari”, iconico western di Sergio Leone, in cartellone a lungo al cinema Astoria, di quel film si parlò per mesi in ogni casa, bar, aula scolastica. 

Il cinema contribuì a cambiarci. A  sedici anni, una domenica pomeriggio, a Meldola, vidi “Il laureato” di Mike Nichols, con Dustin Hoffman e Anne Bancroft, emozionante  pellicola densa di simboli e conflitti generazionali. I cinefili sanno che quel film rivoluzionò il costume di un decennio e l’idea stessa di narrazione cinematografica. Al tempo i film americani arrivavano a Bologna con un anno di ritardo, a Meldola con due. Ero in compagnia di due magnifiche amiche quindicenni. Faticavo a decrittare quel film tanto insolito, mi mancavano curiosità e riferimenti, ma c’erano loro due al mio fianco. Menti scattanti (meno di dieci anni dopo si sarebbero entrambe laureate in medicina), esponenti della prima generazione femminile romagnola con la prospettiva di un avvenire professionale di successo. Curiose, studiose, orgogliose. Le donne laureate erano poche e quasi mai invadevano spazi professionali maschili. Le due ragazzine, senza alcuna spocchia, divertendosi, quel pomeriggio fecero collegamenti tra il film e le proprie letture, mi spiegarono il cambiamento esistenziale che il film adombrava. Quella cosa che si agitava dentro le loro teste si chiamava cultura, anche se erano troppo alla mano per dirselo, perfino per pensarlo. Mi resi conto della mia scintillante ignoranza. Intuii quel pomeriggio che le ragazze, liberate dal peso di tradizioni sfavorevoli, avrebbero avuto molto da insegnare a me e a parecchi altri.

Qui finisco, se no la broda si allunga. Il giorno del mio compleanno al mattino parteciperò a un convegno sull’innovativo distretto bio simbiotico della Val Bidente, in grado di generare salute ed economia. La Romagna è così. Si terrà nella sede di Romagna Acque, ove si stiva, grazie ad un’opera  pubblica avveniristica, l’acqua che disseta un’intera regione. La Romagna è così. Il pomeriggio assisterò a Forlì alla rivisitazione di antiche esperienze artistiche all’interno della rassegna “Un’opera al mese”, che valorizza gli infiniti giacimenti storico-culturali romagnoli. La Romagna è così. Di giornate simili i romagnoli ne hanno, se vogliono, a bizzeffe.

Subito dopo partirò, assieme alla ragazza che volle credermi principe, per una breve vacanza a Napoli. Suggestiva, ma breve. Chi vive in Romagna non ha troppo bisogno di vacanza. Conoscere il mondo è fondamentale, ma da noi non manca proprio nulla. Difficile trovarsi meglio che dalle nostre parti.

Buona domenica alla prossima. 
 

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