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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

Quando è il sindaco ad armarsi di piccone: dalle parole ai fatti, la strategia comunicativa dei leader

Il messaggio che quel tipo d’immagine intende trasmettere è chiaro: l’amministrazione non sta a pettinar le bambole, ci diamo obbiettivi e li raggiungiamo

Il piccone del sindaco. L’immagine più nitida della settimana è quella del sindaco di Rimini che brandisce un piccone nell’atto, simbolico, di abbattere l’antica “Mura” che corre parallela alla ferrovia e separa la zona mare dal centro della città. A lavori ultimati un sottopasso consentirà di sveltire il traffico pedonale e di bonificare l’area della stazione. Soluzione condivisibile, attesa da tempo. Rimini, peraltro, nei dieci anni di leadership di Andrea Gnassi, del quale il nuovo sindaco è stato assessore, ha fatto notevoli passi avanti in termini di infrastrutture e attrattività. È una città diversa e migliore, quella attuale. Jamil Sadegholvaad è intenzionato a proseguire quel lavoro con il successo che gli auguriamo. Ha vinto la recente competizione elettorale con risultati superiori alle attese, mostrando personalità e idee chiare. Offre l’idea di uomo di sostanza; il fatto che sia Rimini a guidare, almeno negli accordi iniziali, il convoglio di “Romagna Next”, consolida tale sensazione.

Certo, il piccone agitato da Jamyl, resta negli occhi. Non so se la scena sia stata organizzata dallo staff del sindaco o dai fotografi dei giornali. Comunque sia, il messaggio che quel tipo d’immagine intende trasmettere è chiaro: l’amministrazione non sta a pettinar le bambole, ci diamo obbiettivi e li raggiungiamo. Si tratta di una strategia comunicativa utilizzata da grandi leader a diverse latitudini e che per la Romagna rappresenta una novità. Benito Mussolini intuì per primo le potenzialità di quel tipo di fotografia. Il duce inaugurò numerose opere pubbliche con fare da protagonista, in Romagna; le immagini che lo testimoniano sono note. Ve ne propongo, allora, un paio non molto conosciute. 

Una di esse mi fu descritta da Luciano Foglietta, scrittore che guidò le redazioni del Carlino di Forlì e di Cesena. Luciano, originario di Santa Sofia, conservava il ricordo infantile di un Mussolini vestito di bianco, circondato dai fotografi e armato di mazza, che concorreva “fisicamente” alla realizzazione della strada che tutt’ora collega la valle romagnola del Bidente alla Toscana.  Per l’epoca, si trattava di infrastruttura complessa, oltre che di opera a lungo attesa. Foglietta non mostrò simpatie per il fascismo in gioventù, (subì, anzi, una lunga prigionia in campo di concentramento) e neppure nel successivo lavoro di storico, ma era cronista fedele ai fatti e privo di pregiudizi. Tanto che mi raccontò un interessante retroscena. La presenza del duce consentì ai lavori di procedere; era in corso, infatti, una disputa tra maggiorenti locali per individuare il percorso del nastro d’asfalto. C’erano, alla base della discussione, interessi contrapposti, anche di natura economica. Mussolini, mi spiegò Foglietta, liquidò la questione fidandosi esclusivamente del parere espresso dagli ingegneri.

Rimanendo all’interno di quella che era al tempo la prima famiglia d’Italia, Edda Negri Mussolini figlia di Anna Maria, ultimogenita di Mussolini e di Rachele Guidi, mi ha mostrato recentemente una foto scattata nella Riccione del 1940. Sua nonna Rachele, con a fianco l’architetto Pater, direttore dei lavori, posa la prima pietra del costruendo “Villaggio operaio”. In quel caso la robusta mascella del duce è sostituita dal bel sorriso della consorte ma la identificazione tra lavoro pubblico e guida politica non cambia.  Rachele Guidi, peraltro, era “testimonial” credibile, essendo notoriamente molto legata a Riccione: una decina d’anni prima aveva fortemente voluto, nonostante le perplessità del marito, l’acquisto della villa che costituì la residenza estiva della famiglia per un quindicennio. La cittadina adriatica molto s’era avvantaggiata della presenza dei Mussolini, in termini di richiamo d’immagine e sviluppo economico, i riccionesi ne erano consapevoli.

Non sono pochi i ritratti di politici “al lavoro” neppure a sinistra. Un esempio per tutti è quello di Giorgio Zanniboni, comunista, da considerarsi, assieme all’altro comunista Angelo Satanassi, principale ispiratore, negli anni Settanta, della sola grande infrastruttura condivisa che la Romagna abbia saputo darsi dal dopo guerra: l’invaso di Ridracoli. Sono diverse le immagini, conservate anche da privati, di Zanniboni che si mescola cordialmente agli operai al lavoro sulla diga. Dalla tradizione operaia, peraltro, Zanniboni, veniva: conosceva quello stile di vita, non si sentiva, e non era, fuori contesto. Ma era anche consapevole della forza immaginifica di certe fotografie. In materia, gli ultimi due anni hanno portato nuove abitudini e una certa deriva. L’auspicabile arrivo delle risorse finanziare europee ha ingenerato attese e nuovi protagonismi.

Come apri un giornale, on line o di carta, t’imbatti nelle foto di amministratori che indicano con il dito manufatti da ristrutturare, strade da aprire, luoghi d’incontro da realizzare. Immagini che vengono poi diffuse sui social e moltiplicate all’infinito. Creando, assessori e staff non se ne rendono conto, un effetto disturbante che nuoce al protagonista invece che favorirlo. Particolarmente quando il pubblico apprende che i lavori in oggetto prenderanno il via tra due, tre, anni e termineranno tra cinque, sette anni. Nella migliore delle ipotesi. Troppa fretta di mettersi in vetrina, d’accampare meriti. I commenti sui social sono spesso impietosi ma i politici, in genere, conteggiano con soddisfazione i commenti positivi e derubricano come prevenuti gli altri. I social non sono, per loro, occasione di autentico confronto, non rendendosi conto che si tratta di arene nelle quali, se ci entri, devi combattere. Non sono luoghi, i social, ove ti puoi permettere d’avere la puzza al naso.

Sta di fatto che uno degli effetti di due anni di restrizioni sociali, è un deficit di partecipazione e di confronto interpersonale. Ecco, dunque, prevalere il potere della immagine, sintetica e sbrigativa. In tempi non lontani, affollati confronti pubblici avrebbero preceduto, e spesso indirizzato, la decisione di smuovere una qualche pietra, in qualsiasi città o paese della Romagna, terra adusa come poche altre alla discussione.  Gli amministratori, intendiamoci, non sono despota: la pandemia non l’hanno inventata, l’hanno sofferta. I sindaci due anni fa dettero eccellente prova di responsabilità, coraggio e capacità d’innovare la comunicazione. Le loro dirette social costituirono baluardo della convivenza civile, non ostentazione.

Eppure, la politica sintetizzata dalle immagini non può bastare. Occorre tornare al confronto.  Dopo due anni di covid, l’alba la immaginiamo fatta esclusivamente di libertà, non riusciamo ad andare oltre. Ma esistono anche le responsabilità, tra esse quella di partecipare, offrire la propria opinione. Nella larghissima maggioranza i politici romagnoli sono persone per bene e capaci. Ma lasciare i politici soli, intenti a pensare che tutto si risolva convocando una conferenza stampa, non è buona cosa. Solitudine e convinzione di sé sono utili se vuoi scrivere un romanzo, comporre musica, dipingere. La pubblica amministrazione è altro, va fatta in piazza, fisicamente. C’è da augurarsi che politici e cittadini sappiano presto riprendere in mano gli antichi, ultimamente arrugginiti, ferri del mestiere.

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