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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

I protagonisti, il "re delle farine", tifoso del Rinascimento e della cultura

Il suo ufficio occupa l’ultimo piano del funzionale manufatto costruito sopra il mulino e sorprende il visitatore. Una vetrata consente, a perdita d’occhio, la visione della fertile pianura. La scrivania è vecchia di generazioni

Nel 1921 il nonno di Leonardo Spadoni acquistò a Coccolia un molino che esisteva dal 1440. Ebbe dieci tra figlie e figli, uno di loro, Libero, continuò l’attività, ammodernandola. Leonardo è figlio di Libero. Oggi Molino Spadoni S.p.A. conta dodici stabilimenti, un allevamento, cinque ristoranti. Produce farine, tradizionali e non, venduti in oltre quaranta Paesi, Stati Uniti e Australia compresi. E’ leader del settore in Italia. Ha dato vita a fortunate avventure imprenditoriali nei settori della produzione alimentare, dell’accoglienza e della ristorazione. Il fatturato, con stime prudenti, s’avvicina ai novanta milioni di euro all’anno.

Il motore di un tale straordinario sviluppo è Leonardo, uomo riservato ma tutt’altro che chiuso in se stesso. E’ noto il suo amore per l’arte e per ciò che genericamente si definisce bello. Le sfide imprenditoriali, il gusto per l’innovazione, ne fanno, nell’ambiente industriale, riferimento stimato dai colleghi. Se raccogli informazioni ti spiegano che non è frequentatore di circoli o ritrovi. Non è tipo glamour, per quanto immagino che potrebbe ampiamente permetterselo. Conversando, apprenderò che le sue serate migliori sono spese tra libri, quadri, teatro, musica.

L’ho raggiunto nel suo ufficio a Coccolia, nel cuore antico dell’azienda, il mulino originario, ove Leonardo staziona ogni giorno, a parte quando deve muoversi per obblighi. Coccolia è un nucleo di case e di vecchi circoli piazzato sulla Ravegnana, sentiero diventato strada nel '700 per collegare Forlì e Ravenna. Il mulino affonda le radici sotto terra, ove oggi strumentazioni moderne razionalizzano il lavoro. 

Mi introduce Federico, giovane manager, figlio di Luciana, avvocato, sorella di Leonardo, e del  dermatologo forlivese Fabio Fabbri. Qui non trovi segretarie eleganti che ti scortano fino al Capo. Ci sono operai, tecnici, camionisti, qui percepisci il suono delle macchine in funzione. Tutto è essenziale, in questo stabile in cui ancora ci si cura, con ruvidi unguenti, delle ferite lasciate dalla devastante alluvione di Maggio. Nell’aria la polvere del fango duro e pesante che invase questa parte di Romagna la si respira. Non incontro Spadoni da una decina d’anni,  da quando mi fece la cortesia di venire a VideoRegione per “Salotto blu”. Lo fece non perché ami essere intervistato, tutt’altro, ma in ricordo dei tempi in cui frequentavamo entrambi il Liceo scientifico a Forlì.

Era un ragazzo sorridente, espansivo, che l’anno della maturità si presentò con una Volkswagen-Porsche blu, auto non particolarmente costosa ma di richiamo. Leonardo era ben visto dalle ragazze anche senza possederla, immaginate dopo. Si sarebbe predetto per lui un futuro leggero, una qualche professione, un bel vivere di provincia, coccolato nella accogliente Ravenna. Invece, ha costruito un’impresa che sconfina in diversi continenti e sbandiera orgogliosamente l’alto artigianato alimentare italiano. 

Il suo ufficio occupa l’ultimo piano del funzionale manufatto costruito sopra il mulino e sorprende il visitatore. Una vetrata consente, a perdita d’occhio, la visione della fertile pianura. La scrivania è vecchia di generazioni, alle spalle di Spadoni c’è un grande quadro di Giorgio Poppi, amico pittore bertinorese. Due solide sculture di Martini occupano lo spazio vuoto, alla parete è appoggiato un juke box dei bei tempi. Intuisco che il Capo, che alberga qui quando potrebbe girare il mondo per diletto, si fa compagnia con la parte della vita che più gli piace dopo l’inventare lavoro.

Ha conservato, beato lui, il ciuffo e il sorriso dei tempi ragazzeschi. E’ gentile, mi pare si diverta a chiacchierare un po'. Sopra la camicia chiara e le bretelle indossa un pullover dai colori della campagna quando viene l’autunno. Optiamo per preservare il tu, come fossimo ancora al Liceo. 

Leonardo, all’esterno un signore mi ha visto spaesato e mi ha indicato cortesemente l’entrata. L’ho visto poi dirigersi alle macchine situate sotto il livello del suolo. Ti posso chiedere chi è?
"E’ Giorgio, il nostro capo mugnaio, figlio di colui che fu per molti anni capo mugnaio ai tempi di mio padre. Sua madre ha abitato qui di fronte fino all’ultimo giorno di vita. Spero che Giorgio e altri vogliano continuare a stare con noi anche raggiunta la pensione. Succede".

Dov’è finita la Wolkswagen Porsche?
"In un epoca in cui non avevo compreso l’importanza dei ricordi la cedetti per acquistare un’altra auto. Poi mi prese la nostalgia, per quella macchina, come per il “Corsarino” della Morini su cui avevo scorrazzato da ragazzino. Ho avuto la possibilità di ricomprare modelli simili. Dispongo di  auto d’epoca. Credo che la bellezza stia anche negli oggetti e nei sentimenti che agli oggetti ci legano".

Coltivi nostalgia per il passato?
"Forse non  nostalgia, sono rivolto al passato come gusti. Penso che le cose migliori nell’arte, nella musica, nella meccanica, siano state concepite in anni diversi dagli attuali. Mi piacciono opere antiche, a casa ascolto musica classica e jazz. Ma anche quella leggera dei nostri tempi, i “Rokes”, “Equipe 84” con Maurizio Vandelli, del quale sono amico. Mi sarebbe piaciuto suonare, non ho avuto quel talento".

Alla tua destra vedo una suggestiva scultura in bronzo... 
"E’ un opera di fine ottocento, rappresenta un ragazzino, garzone di fornaio, stanco, seduto a ripensare alla propria fatica quotidiana. E’ bella, la tengo anche per ricordare ogni giorno il suo significato e mi piace guardarla".

Hai sempre pensato di continuare l’attività di famiglia?
"Da adolescente non ero certo, anche perché avevamo un mulino e allora ce n’erano tanti, non era scontato che ci fosse futuro, qui. Mio padre voleva che studiassi Ingegneria, lui era laureato in Economia. Quando gli dissi che volevo fare Giurisprudenza affermò con tono ironico che una laurea in Legge e un bicchiere d’acqua non si negano a nessuno. Studiai, ma ogni estate la passavo qui, imparando il lavoro".

Dopo la laurea cosa accadde? 
"Il giorno dopo la discussione della tesi mio padre mi accompagnò alla Borsa Merci di Bologna. Siccome all’entrata si pagava, se non ricordo male novemila lire, acquistò un solo biglietto; rimase fuori e mi mandò dentro da solo. Non buttava mai i soldi. Voleva che mi facessi le ossa, prova a nuotare: mi parve un ambiente di squali". 

Abiti a Ravenna, sei spesso indicato come riferimento imprenditoriale della città  Se nomino la famiglia Ferruzzi Gardini cosa ti viene in mente?
"Ho stimato sempre Raoul Gardini come figura eccezionale, di grande respiro. Ravenna è città splendida, che, all’epoca, grazie a quelle famiglie, visse anche una fase economica straordinaria.  La parabola di Raoul, poi, è stata troppo veloce. Avrebbe meritato di disporre di un periodo più lungo, avrebbe fatto bene all’Italia. Ho cercato di fare la mia parte per ricordarlo, per quanto potevo, nel trentennale della scomparsa. Tra le nostre attività gestiamo “Ca del Pino”, uno dei luoghi che lui frequentava. All’interno abbiamo reso omaggio a una famiglia molto importante, raccogliendo i ricordi e i cimeli di quel periodo tanto importante".

Ti senti ravennate, romagnolo, o niente di tutto questo?
"Mi sento romagnolo. Ho vissuto, per fatti personali e professionali, in ciascuna delle nostre città. Rispetto ma non sono affascinato dalle singole èlite cittadine. Penso alla Romagna come a una magnifica città diffusa ove s’incontrano tante persone interessanti, mestieri, meraviglie artistiche e ambientali. Il campanilismo limita la possibilità di muoversi e spaziare. Per me il “Corsarino” era sinonimo di libertà, di scoperta. Il campanilismo ti chiude, la Romagna è invece libertà, arte, divertimento".

Il termine capitano d’industria lo senti tuo?
"Più che industriale mi sento industrioso. Per me industrioso, in qualsiasi campo, è uno che sperimenta cose che prima non c’erano e che prova a salvare, a non rovinare, cose che c’erano prima di lui, cercando di non fare danni".

Si discute dei limiti del capitalismo familiare…
"Ci sono pregi, come quello di un collegamento sano al momento del passaggio generazionale, che è una una sorta di verifica della parabola dei talenti. Proseguire quel che già c’è da un senso di non precarietà. Del resto, senza la famiglia tutto appare un pò claudicante, nella vita. Pur con tutte le nostre contraddizioni personali rispetto al termine famiglia. Chiunque si guardi indietro pensa al padre, alla madre".

La crescita aziendale?
"C’è indubbiamente spazio, in un’impresa che affronta mercati vasti, per superiori livelli dimensionali, per organizzazione e strutturazione. Ma non ritengo che la crescita sia l’unico obbiettivo, in una impresa. Ci sono valori da difendere, quelli della difesa dei posti di lavoro, dell’etica, della territorialità. La dimensione familiare non è un limite di per sè, penso all’esperienza di grandi persone, i Del Vecchio, i Ferrero. E, comunque, per me un’impresa è lavoro, il capitalismo finanziario è altra cosa".

Dal mulino di tuo padre sei partito con l’innovazione delle farine. Poi è venuto il resto, sempre in crescendo. Cerchi continuamente nuove strade per business, per febbre interiore o perché ti annoi?
"Forse avresti dovuto chiedermi in quale proporzione si presentano tutti e tre questi aspetti.  Provo piacere nell’aspetto di novità. Sono cresciuto in un’ epoca in cui si cercava di essere persone complete, di capire ogni cosa che ci si presentava di fronte. E sono “tifoso” del Rinascimento italiano, quello fiorentino in particolare. Spero di possedere una curiosità più ampia rispetto alla specializzazione. L’idea di complessità è italiana, non americana e io mi sento orgogliosamente italiano".

Dimmi, su questo, qualcosa in più, se ti va.
"Abbiamo, noi italiani, la possibilità di poter guardare all’America per capire dove andrà il futuro. Almeno fino a quando gli Stati Uniti saranno il riferimento globale,  visto che ci sono segnali di una possibile perdita di leadership. Ma abbiamo anche la fortuna di poter guardare al passato, alla nostra cultura, alla musica, all’arte, alla gastronomia, alla socialità. E’ bene fare paragoni, non assorbire tutto a scatola chiusa. Ricordando anche che non potremo mai competere sul loro terreno operativo, dovremmo provare a giocare la partita sul nostro".

Torno alla farina, alle mille declinazioni che avete studiato e commercializzato. Una volta ti ho sentito dire che la farina per la tagliatella, la più usuale, è la vera tesi di laurea del mugnaio.
"E’ vero, per realizzarla servono le competenze massime e per ottenerla essere davvero un “Gran Mugnaio”, anche se viene utilizzata una tecnologia tranquilla, sperimentata da secoli. Del resto, l’industria del mulino, in fondo,  non è mai cambiata, risponde a principi di semplicità, salubrità ed economicità. Non esiste grano tenero con organismi geneticamente modificati, su questi aspetti si fanno discussioni inutili. Il nostro è settore che definirei semplice, ma non puoi lavorarci con soddisfazione se non conosci a menadito il prodotto e il processo. Quelle sui dubbi riferiti alla salubrità dei prodotti di un mulino sono chiacchiere di persone che non sanno niente di quel che dicono".

Concetto che si può allargare all’allevamento della “Mora romagnola”?
"Sapevo poco del settore, ma conobbi Emilio Antonellini, grande esperto e appassionato. In quell’ambito conta la qualità operativa, la pazienza, la conoscenza. A Brisighella si cercano, e abbiamo selezionato, le migliori linee di sangue. Le nostre “More” sono concepite e partorite nelle nostre nurseries, non artificialmente come avviene nei normali allevamenti. Le si alimenta al meglio e le si fa vivere allo stato brado, libere, in uno spazio di circa cento ettari. Tanto che quei maiali campano mediamente tre o quattro volte di più di altri.  Questo aumenta in proporzione la quantità di cibo e i costi, ma i buongustai lo sanno. Di qui il gusto, la salubrità. E la possibilità di rivitalizzare una straordinaria esperienza romagnola che andava scomparendo".

In termini di business, per voi l’allevamento della “Mora”non è certo opzione prioritaria...
"Lo facciamo perché è una cosa bella, unica e quindi utile. E’ un’esperienza diversa, ci fa apprendere cose. Non si smette mai d’imparare. Anche se la regola, appresa da mio padre e mio nonno, è che negli affari devi sempre provare a non rimetterci. Ma si può investire in settori non particolarmente o non immediatamente redditizi, se ne vale la pena".

Avete aperto e gestite diversi luoghi di convivialità, mi riferisco ai ristoranti e simili, che oggi sono rinomati. La gente avrà sempre bisogno d’incontrarsi?
"Si. A mio giudizio coltiverà abitudini più indirizzate all’incontro, al confronto, alla conoscenza reciproca. Non immagino locali esclusivamente per famiglie o, passando da un estremo all’altro, dominati da musiche assordanti che rendono impossibile la conversazione. Credo nei locali “misti”, dove si può parlare, conoscersi, rimanendo comunque in ambienti vivaci. Hai usato il termine convivialità: aggiungerei la possibilità di fruire di uno spettacolo, di una mostra, della possibilità di ascoltare,  imparare. Mentre si mangia, si beve, si ride".

Questa opportunità di stare assieme salverà centri storici e borghi?
"Penso proprio di si. Quantomeno si tratta di una possibilità che va sostenuta. Ti faccio l’esempio di Ravenna, all’interno del cui centro storico abbiamo diverse attività. Attorno al “Mercato Coperto”,  realizzazione cui abbiamo creduto anche in mezzo a qualche scetticismo, siamo riusciti a creare un vortice di situazioni che mi pare abbiano dato vivacità ad una zona strategica del centro. Ritengo che in futuro sempre più si uscirà per una passeggiata senza un obbiettivo prestabilito. Occorrerà mettere a disposizione delle persone opportunità diverse".

Siete sui mercati esteri, in alcuni siete leader del settore. Sai quel che succede nel mondo. A tuo giudizio l’idea di distretto economico, di territorialità, può sopravvivere?
"So che pensi alla Romagna, rispondo si. La Romagna ha eccezionali potenzialità, ma diciamocela tutta: è una regione che non ha più la propria capitale storica, Bologna. Una mamma non sempre affettuosa. Avremmo bisogno di metterci d’accordo, di un riferimento utile per tutti, di strategie condivise, di obbiettivi davvero comuni. Bisogna condividere esperienze, realizzare infrastrutture. Abbiamo bellezze artistiche e ambientali, tradizioni culturali, capacità di lavoro e di innovazione".

La vostra storia è a Coccolia, luogo di transito e di fiume. Poi, lo scorso Maggio, l’acqua vi ha invasi.
"Certe cose bisogna viverle per capire. Ci siamo trovati in mezzo a un unico lago che d’un colpo sostituiva strade, campi, ponti. Acqua che procedeva a velocità enorme, che trasportava di tutto e portava via tutto, pensa che faceva arrugginire il ferro in poche ore. Peggio del sale marino. Mio nonno comprò qui nel 1921 perché c’era l’acqua del canale che spingeva le macine, risorsa poi trascurata e quindi sempre meno utilizzabile. Lo scorso Maggio il livello dell’acqua  ha superato di 61 centimetri quello dell’alluvione del 1939 in cui era piovuto dodici giorni a fila, non due. Adesso, a distanza di mesi, siamo ancora, come hai visto, in mezzo ai guai, anche se la produzione è ripartita". 

Come se ne esce?
"Con una diversa coscienza ambientale, di gestione dei territori, di conservazione delle acque, di manutenzione dei fiumi. Se è vero che siamo in presenza di un cambiamento climatico, occorre modificare strategie e abitudini. Mio padre temeva inondazioni prodotte dallo scioglimento delle nevi su colline e montagne. Ma lo scorso inverno non aveva neppure nevicato. Tutto cambia". 

Mai pensato di assumere responsabilità associative o istituzionali?
"Istituzionali mai, non sono il tipo. Non per snobismo, non ho le caratteristiche che servirebbero.  Dal punto di vista associativo, ho sempre accettato qualche responsabilità in Confindustria, ma il tempo di cui dispongo non è tanto".

Senza farvi pubblicità sostenete iniziative sociali e culturali. Con quali criteri?
"Teniamo le porte aperte per fare cose belle e aiutare chi le fa. Pensiamo che più le persone sanno, condividono, meno diventano cattive e prepotenti. A me, poi, piace accompagnare passioni non isolanti. La cultura, il viaggio, ad esempio, servono ad alimentare l’abitudine al confronto".

Quel che ha realizzato è ciò cui pensava il ragazzo della Volkswagen-Porsche?
"Direi di si, trovo continuità tra il ragazzino che ero e quel che sono. Andavo alle scuole medie a Forlì, da Coccolia, con la corriera, la vecchia “Sita”. Tenevo una bici al capolinea per raggiungere la scuola e il centro di Forlì, che al tempo per me era Manhattan o giù di li. Ero sempre solo, avevo tempo per pensare. Mi abituai a guardarmi attorno. Non credo d’essere troppo cambiato, segni dell’età a parte. Mi sento fortunato: lavoro con una squadra di persone assieme alla quale realizziamo cose tra le migliori possibili. Credo d’aver fatto quel che dovevo".

Abbiamo finito. Leonardo mi chiede della mia scolaresca al Liceo, gli dico che la prossima settimana incontrerò a cena compagne e compagni, che siamo ancora in discreta salute. Mi confida che diversi della sua classe non ci sono più e che la cosa gli da tristezza, per un attimo rabbuia lo sguardo vivace. Mi accompagna a piano terra. Per le scale incontra persone dell’azienda, parla con loro dei danni lasciati dall’alluvione, del da fare quotidiano. Tra “padrone” e dipendenti è palese la complicità. S’accorge che ascolto. Salutandomi, mi spiega: “Abbiamo parlato di tante cose, mi ha fatto piacere, ma quel che conta davvero è qui. Siamo mugnai, è questo che  vogliamo fare, ecco perché quel che succede qui ci coinvolge tanto”

Ringrazio Leonardo Spadoni e i lettori. Buona domenica, alla prossima.

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