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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Forlì a naso in giù

Durante il governo del Duca Valentino in città si provvede a selciare le strade principali: vicende di un cantiere importante

Forlì, 9 agosto 1502, musica di campane e pifferi per le vie del centro: che cosa stava accadendo? La risposta verrà data dopo una digressione pertinente con ciò che si dirà poi. Il caldo persistente, in centro storico è amplificato dall'asfalto che quasi si compiace di donare un riverbero ancor più caloroso a chi vi si avventurasse. Eppure i piedi che calpestano le vie del centro non s'imbattono (per fortuna) solo nell'asfalto. Ampie parti sono coperte da cubetti di porfido, alcune, invece, presentano una veste mista, grazie alla meritoria operazione che una ventina d'anni fa interessò la parte più turistica (se così si può dire) della vecchia Forlì.

Così comparvero le borchie che indicavano la presenza di chiese o monumenti scomparsi, come i ponti, o indicazioni del corso del canale di Ravaldino o del perimetro della chiesa di San Francesco Grande. O ancora le pietre dove si citano i confini di contrade oscure, si tratta di dettagli dotti, raffinati, più che pregevoli: qualcuno ha avuto la pazienza e la curiosità di soffermarsi su essi?   Si auspica che queste cose – cose che rimangono e che sono un felice connubio tra eleganza e opportunità di carattere storico – nell'immediato futuro siano riprogettate perché il Cittadone ha bisogno di un decoro duraturo reso sensato dall'identità. Proseguire per altre zone del centro con il “cantiere del tempo”, dunque, sarebbe cosa buona e giusta. Fino a qualche decennio fa, si potevano ammirare vecchie selciature anche nelle vie nei pressi di corso Diaz, poi fu preferito - sempre scansando ogni criterio estetico - stendere il più facile e comune asfalto, facendo perdere fascino a strade che ora appaiono anonime. Così com'era per piazza delle Erbe e, nelle immagini di primo Novecento, pure per corso della Repubblica: si cerchino foto del "com'era" e si valuti. Oggi i sassi di fiume nelle strade rimangono solo (per dimenticanza o per scelta?) in alcune stradine di Schiavonia. Così è sempre meno frequente contemplare il lavoro dei posatori, chi si dedicava alla manutenzione di quest'antica forma di pavimentazione: a colpi di mazzuolo facevano affondare le pietre scelte con velocità e sicurezza in uno strato di sabbia grossa. Seguiva una stesa di sabbia fine e colpi di martello di legno per assestare il manto stradale: un po' d'acqua ed il lavoro che univa precisione a forza fisica era fatto. Il secondo Novecento, dunque, ha tentato di uniformare le strade al comodo, relegando i vecchi sassi a vie marginali dove ancora necessita una certa perizia il transito con tacchi o bicicletta. Sembrano maturi i tempi per una coraggiosa inversione di marcia: più strade selciate, se davvero si fosse capito che è dal dettaglio (che dura nel tempo) che si fa bella la città. 

Che la pavimentazione delle strade sia una cosa importante lo conferma il nome storico di un importante asse viario; anticamente corso della Repubblica, un rettilineo che sa poco di antico, prendeva nome “strada petrosa”. Ciò significa che tutte le altre non lo erano (petrose, cioè ricoperte da un manto di pietre, in poche parole tutto il resto per lungo tempo si presentava sterrato). 
Una delle poche opere di risalto che lasciò traccia nel breve governo Borgia fu, appunto, la selciatura delle strade: un atto moderno e di rottura con il medioevo appena finito (chissà con quanta polvere!). I lavori si sarebbero protratti con un'attenta ed efficace programmazione tanto che il cronista Andrea Bernardi detto Novacula vi si sofferma a costo di apparire come un “umarell” al cospetto dei cantieri. Attenzione però: se ci sono resti di quell'antica selciatura, si trovano ad almeno quaranta centimetri sotto l'attuale manto stradale!

Il periodo dei Borgia in Romagna ricorda un po' il clima dei Promessi Sposi, più di cent'anni prima. Governatore della Romagna era Ramiro de Lorqua, spagnolo di Murcia, uomo spiccio e crudele, un (pre)potente leccapiedi del Duca Valentino che con le buone o più sovente le cattive aveva la missione di “convincere” i romagnoli a sottostare al figlio del Papa. Non fu molto gradito: fu trovato “in due pezzi” (non nel senso del costume estivo) nel Natale del 1502, aveva cinquant'anni. Nella primavera precedente, però, Nicolò Tornelli “nostre doctore civile, habitatore nel borgo di Codugne” (cioè in corso della Repubblica) con altri, si presentò davanti a Ramiro de Lorqua per perorare la causa di “selegare” (cioè di selciare) almeno “li 4 borghe maestro”, cioè “Schiavania et Codugne, Sam Pieri et Ravaldino”. Occorrevano sassi di fiume ben levigati e tanta perizia. Per questo si organizzò un sistema di ufficiali di quartiere per dividere il grande cantiere urbano in lotti: “Pro Sante Crucis et Valeriani: Ator Moratino, pro Sante Mercurialis: Pieri Francescho di Canbino, pro Sante Petri: Bartolo di Castellino, Per Santo Blase: Bernardino zià di Gratiole de Checo”.

Fu convocato un ingegnere imolese: “M° Iacome zià de frate Selvestre de Guarino” proponendogli un salario di 17 soldi per ogni “pertega de lavoro quadrà” (24 metri quadrati) più vitto e alloggio. I lavori iniziarono alle ore 13 di lunedì 9 maggio 1502 “a borgo di Codugne”, in termini odierni in corso della Repubblica. Finì il 15 luglio, venerdì, alle 15: non fu facile per la presenza della chiaviche, fogne a cielo aperto, però l'attento cronista non tralascia nulla. Come il fatto che per “borgo a Santo Petri” fu chiamato un altro ingegnere, “M° Gotardo de Manfrede”, anch'egli imolese, che si accontentò di 14 soldi per ogni pertica. A sua volta, iniziò il lavoro dal convento delle domenicane (oggi all'altezza di via Felice Orsini) mercoledì 18 maggio 1502 “cercha al'ora undecima” (qui Novacula sembra distratto) per raggiungere la piazza terminando martedì 5 luglio (non si sa a che ora, questa volta). Il cantiere di Schiavonia fu affidato a “M° Iacome da Vighuvano” e iniziò dalla “Masone” (cioè all'altezza di via Farabottolo) mercoledì 25 marzo 1502 “a hor decima nona”.

Questo tecnico era “pagato a zornata” (in effetti non è specificato quando finì). Partì anche Ravaldino con il lavoro di “M° Cristofaro di Beze”, unico forlivese purosangue tra gli ingegneri muratori chiamati a “selegare la nostra ciptà de Forlì”. La prima pietra fu posata davanti alla chiesa di Sant'Antonio Abate alle 21 di martedì 31 maggio 1502, “zoè el zorne benedecto dal biato Jacome deli frate predicatore”. Infatti, in quel giorno si festeggia la memoria del Beato Salomoni, domenicano di Venezia che si distinse nel convento forlivese. Quest'ultimo lotto sarebbe terminato il 9 agosto 1502 con l'arrivo in piazza all'altezza del Palazzo del Podestà: ecco allora spiegato il motivo della festa con suono di campane e pifferi.

Però è da dire che i lavori andarono avanti almeno fino al 1503 (un'inaugurazione dunque frettolosa, fenomeno che ci fa sentire vicino quel tempo lontano). Nel suddetto giorno estivo, accompagnato dai canonici della Cattedrale, a tagliare il nastro c'era “M° Lufo Nomaglia”, cioè Luffo Numai, il politico sempre in piedi: segretario di Pino III Ordelaffi prima, di Caterina Sforza poi e ben sistemato coi Borgia. Nello stesso momento, però, egli stava pure seguendo la costruzione del suo bellissimo monumento funebre che si può ammirare nella sua Forlì, all'interno della Basilica di San Pellegrino (già che c'era, preparò per sé un sepolcro anche a Ravenna): temeva che gli fosse servito uno di quei frequenti bocconi avvelenati? Si sa tuttavia che seppellì perfino i Borgia, in quanto morì nel 1509. 

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