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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Il senatore dei pesci elettrici

Carlo Matteucci: un forlivese geniale, alle prese con torpedini, telegrafi e questioni di politica nazionale. Un personaggio da riscoprire, un grande scienziato di Romagna

Ideale successore di Alessandro Volta e Luigi Galvani, studiò l’elettricità animale, in particolare dei “pesci elettrici”, cioè le torpedini. Il suo lavoro gli valse il merito d’essere considerato il padre della moderna elettrofisiologia. Ma Carlo Matteucci fu molto di più. Nato a Forlì il 20 giugno 1811 in una famiglia di medici fu appassionato di scienza fin da piccolo. Ad appena quattordici anni venne ammesso al secondo anno della Facoltà di Fisica e matematica dell’Università di Bologna; dopo soli tre anni si laureò discutendo una tesi di meccanica generale.

Già qui si capisce che si è davanti a un ingegno singolare e non solo volto agli studi scientifici. Per il resto, il curriculum è pieno di viaggi, incontri, esperienze: frequentò i corsi del Politecnico di Parigi ed ebbe modo di conoscere l’Europa dei tumultuosi anni Trenta (dell’Ottocento). Respirando un clima internazionale, tornato a Forlì fu vicino alle istanze risorgimentali, dei cospiratori, tanto che gli fu più congeniale riparare a Firenze, nel Granducato liberale, dove si fece conoscere come pubblicista e ricercatore. Il “pazzo per la scienza” (come lo chiamavano) fece rientro a Forlì nel 1836 e qui avviò un’industria chimica per produrre colle e concimi da ossa e ossi ma non ebbe successo, tanto da preferire un più agiato incarico di direttore di farmacia. 

Fu richiamato in Toscana da Leopoldo II per dirigere la cattedra di fisica sperimentale dell’Università di Pisa. Tra le altre cose, era suo compito registrare le osservazioni meteorologiche. Non abbandonò, tuttavia, i suoi “pesci elettrici”, trattando l’argomento in saggi in francese apprezzati dagli scienziati del tempo. Senza rovistare tra tecnicismi e concetti complicati, le scoperte di Matteucci furono in parte smentite da altri colleghi, ma lui, cocciuto, tirò dritto senza mai ammettere un errore. Con i suoi pesci elettrici, però, fu il precursore di ciò che più avanti si sarebbe fatto conoscere come elettrocardiogramma. Durante una delle sue numerose spedizioni all’estero incontrò la scozzese Robinia Young che divenne sua moglie. In Toscana, in seguito, divenne direttore generale delle linee telegrafiche grazie al contributo che aveva dato al Granducato per realizzarle. Meritò quindi il titolo di “padre della telegrafia italiana” perché questa sua esperienza sarà valorizzata nel 1860, quando divenne Ispettore per l’Italia ormai unita.

Nonostante la sua vivace attività scientifica, la sua tempra forlivese lo portò – come già accennato – a seguire con interesse i passaggi del Risorgimento dal punto di vista liberale. Si mosse, almeno inizialmente, con cautela, senza dar troppo nell’occhio, preferendo di gran lunga l’ambiente toscano a quello romagnolo ben controllato dalla polizia pontificia. Vicino a Gioberti, sosteneva la via del federalismo per l’Italia ancora di là da venire in quel famigerato 1848. Non era, però, una testa calda, nè tantomeno un impulsivo: vero è che tutelò gli interessi del Granducato in occasione degli scontri di quegli anni senza però riscuotere grandi successi. Eppure si credeva tanto abile nell’arte della diplomazia da ritenersi indispensabile nei contatti tra sovrani e gabinetti stranieri. Dieci anni dopo, nel 1859, si candidava a essere mediatore tra i Capi di Stato italiani e il Papa, inviando a insaputa dei rispettivi Governi lettere a questi e agli altri. Le sue proposte, difficili sul piano pratico, furono scartate.

Interessava poco la Confederazione Italiana in modo da lasciare una certa autonomia agli Stati preunitari, quindi tornò da ogni missione con le pive nel sacco. Capì che ormai il suo sogno era fuori dalla storia con la spedizione dei Mille, allora si rivolse a Cavour per proporsi come mediatore tra Vittorio Emanuele II e Pio IX, suggerendo un concordato ante litteram tra le due realtà statuali. Camillo Benso non si degnò di ascoltarlo ma fu nominato senatore del Regno di Sardegna nella categoria di “coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria”. Altri episodi del Matteucci politico disegnano un personaggio che fuori dai laboratori e dalle aule di scienze risultava borioso e improvvido, spesso al centro di maldicenze anche a causa di una sua certa spavalderia, o goffaggine che dir si voglia. 

Alla fine, però, il senatore forlivese riuscì a diventare Ministro della Pubblica Istruzione. Il 5 giugno 1861, Matteucci presentò al Senato un disegno di legge sul riordinamento dell’istruzione superiore, che attribuiva al Governo ogni competenza in materia eliminando tutti gli organismi periferici e prevedeva l’accentramento di investimenti e di energie in poche grandi Università, le sole autorizzate a concedere la laurea dottorale, lasciando a quelle dei centri minori una sola facoltà in modo da farle lentamente spengere. L’opinione dei dottori si spaccò: ma il “centralismo ordinato” di Matteucci ebbe la peggio. 
Continuò gli studi e le pubblicazioni e lavorò fino alla fine nonostante che la salute, dopo le cinquanta candeline, non gli abbia fatto più favori. Per ristorarsi si riposava in una villa nei pressi di Livorno, sulla spiaggia dell’Ardenza. Ordinò, negli ultimi suoi giorni, altre torpedini da studiare. La morte lo colse con una paralisi facciale il 24 giugno 1868. 
 

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