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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Un deposito d'armi in San Domenico

Sembra che nel 1864 i frati forlivesi nascondessero armi all'interno del convento invocando il ritorno dello Stato Pontificio

Nella primavera del 1864 si diffuse un sospetto che impensierì non poco le autorità locali. Sembrava, infatti, che nel convento dei Padri Domenicani potesse esserci un “deposito d'armi, di divise militari, e di corrispondenze politiche ostili al Governo”. Forlì era entrata a far parte del Regno d'Italia da appena cinque anni e i nostalgici della passata gestione non mancavano. “Le armi e le divise militari sarebbero nascoste nelle case campestri dei coloni da loro dipendenti, le lettere e le carte fra i libri della Biblioteca del Convento”. Il Regio Prefetto si trovò sul tavolo tale documentazione e promosse ulteriori ispezioni, in modo da “conoscere perfino i nomi dei Religiosi che di preferenza si occupano di simili intrighi e corrispondenze” o che “si trattengono in lunghi colloqui coi coloni”. 

In fin dei conti, ora come ora, poco interessano – credo – gli sviluppi dell'indagine. Non seguirono grosse rivelazioni sebbene si chieda al Prefetto di “osservare le più minute informazioni”. Penso che siano queste “minute informazioni” a destare una certa curiosità. Tra le righe in corsivo poliziesco (non sempre coerente nei nomi di persona) si apre una finestra su com'era in quel momento il convento che oggi è al centro delle politiche culturali di Forlì. Il tono è comunque inquisitorio e non nasconde un forte livore nei confronti dei nostalgici. 

Si evince dunque che in quel 1864 ancora esisteva il convento, ricavato in piccoli spazi adiacenti alla chiesa di San Giacomo. La maggior parte del “San Domenico”, infatti, era già destinata a caserma. “I frati sono confinati in poche camere aventi accesso solamente dalla chiesa annessa al convento da essi officiata. Il convento possiede su questo territorio dieci case coloniche”. Più dettagliato è il rapporto della Delegazione Centrale di Pubblica Sicurezza: “Il Convento è posto in questa Città nel Rione Schiavonia, piazzale San Domenico, in vicinanza alla chiesa soppressa di S. Sebastiano e alla Caserma di S. Giacomo. È un vasto fabbricato con orto, circondato da muro e di due appezzamenti di terreno all'interno del Convento, fu per la maggior parte posto dal Governo a disposizione della sussistenza militare, lasciando poche stanze e un piccolo corridojo pel ricovero dei frati stessi, nonché una striscia di terreno, il quale viene viene diviso dal corpo dell'orto mediante un piccolo muro, e questo serve per riporvi le immondizie”.

Gli otto frati “officiano la vasta chiesa, e questa è composta di una sola navata di dieci cappelle laterali e in vicinanza alla maggiore esistono due cantorie con organi”. Occorre aggiungere che in quegli anni, come in parte detto, il convento era quasi esclusivamente diventato un deposito di viveri per le truppe, addirittura con annesso macello per bovini e caserma per il corpo di guardie di pubblica sicurezza. Ai frati restavano la chiesa e quattro camere già appartenute al Vicario del Sant'Ufficio. 

Quindi si passa in rassegna ogni componente della “famiglia”: chi erano i frati in San Domenico, in quel 1864? Il Priore Vincenzo Corsini è descritto in guisa inquietante: è “timido” e “tale da lasciarsi raggirare da altri”, per esempio “si lascia dirigere dal Parroco Santini”. Inoltre è “fanatico per scrupoli e principii religiosi”, talora “altero e caparbio”. E poi: “oltre a essere partigiano del cessato governo”, in passato “infondeva gli stessi pregiudizi alle sue penitenti”, tra cui una certa Ginevra Franchini da lui indotta a farsi monaca in quel di Fontanellato. In seguito costei, “pentita del passo falso”, “non ebbe più pace, andò fuori di sè” fino a finire “nel manicomio di Imola”. 

Viene citato poi Padre Perazzoli che “esercita il Sindacato” ed “è tutto del governo papale” e del medesimo orientamento politico pure Padre Mazzoletti e Padre Ferrucci. Infine, il più anziano: Padre Ricci “che ha domicilio in questo convento” pressoché da quarant'anni. Egli, “per la sua anzianità avrebbe potuto coprire primarie cariche” ma ora “è in uno stato di imbecillità” e per “aberrazioni mentali” non celebrò mai messa. Ad essi si associa poi Frate Enrico “di circa 28 anni” che “è molto riservato nel parlare ma è del partito del cessato governo”. Poi Frate Vincenzo, “sagrestano di anni circa 58”, anch'egli molto riservato “ma del pari affezionato al governo papale”. Infine, Frate Giovanni, il cuoco: “costui, come tutti gli altri, è del governo papale, e avrà circa 42 anni”. 

Insieme a questi nomi senza volto, a queste storie, a queste “minute informazioni” si aggiungono quelle relative ai coloni delle case campestri del convento e alle loro famiglie contrassegnate da un soprannome locale. Il più pericoloso sembrava essere “Rossone”, al secolo Pellegrino Gramellini di Bussecchio, definito “il più osteggiante l'attuale regime”. E poi c'era “Marchisen”, cioè Giovanni Ricci di San Varano. E Sibet (Angelo Albertini di Bagnolo), e Siba (Lorenzo Albonetti di Forniolo): “tutti sono propensi pel governo pontificio”. Tra l'altro restano “avversi per principio all'istituzione della leva” giacché “vedono malvolentieri che gli si stacchi qualcuno dalla loro famiglia”. Questo mondo sarebbe scomparso per sempre di lì a pochi anni: entro il 1867 anche l'ultimo residuo di convento fu requisito dallo Stato e i domenicani lasciarono per sempre Forlì dopo una presenza durata circa sei secoli. 

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