rotate-mobile
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Un forlivese al Quirinale

Melozzo, chi? Il “pictor papalis” dimenticato per quattro secoli anche oggi non è sufficientemente ricordato nella sua Forlì

Forse non tutti sanno che al Quirinale c'è un forlivese. È il “Cristo che ascende trionfante” di Melozzo da Forlì, frammento di un affresco staccato da una chiesa romana, capolavoro che orna lo scalone principale del Palazzo. La sua città d'origine probabilmente non ha conservato nulla dell'artista, salvo – forse – il cosiddetto Pestapevar. Chissà, se un giorno si prenderà sul serio il risanamento e il restauro del monastero della Torre o della Ripa, forse qualche testimonianza sconosciuta e importantissima potrebbe tornare alla luce. Vero è che il nome di Melozzo rimase per secoli pressoché ignoto anche agli esperti.

Pur avendo avuto incarichi importantissimi a Roma, specialmente con Sisto IV (di cui divenne “pictor papalis”), non dimenticò mai la sua città. In occasione della sua morte a 56 anni l'8 novembre 1494, il cronista Leone Cobelli lo chiamerà “illustro peritissimo” e “docto in prospectiva” di cui era “solenne maestro”, anzi “el più solenno de la Talia”. Insomma, con una punta di campanilismo (e amicizia) Cobelli, lo esaltò in un periodo già gravido di arte: contemporanei del forlivese erano, per far qualche nome, Piero della Francesca, Andrea Mantegna, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, il Francia e il Perugino.

Dunque sarebbe il più solenne pittore d'Italia? Ma che vuol dire? Non usa, Cobelli, l'espressione “il più grande”, o “sommo” ovvero simili anche artificiali e retorici fraseggi. Forse perché quegli angeli perfetti, i suoi volti così moderni per il “suo” Quattrocento, lo risaltavano in una classifica a sé. Tanto a sé che poi fu dimenticato. Vi è da dire, come per altre firme, che non essendo nato dalla “parte buona” dell'Appennino, cioè Firenze, non venne ascritto nell'Olimpo dei grandi artisti. Il primo storico dell'arte italiana, Giorgio Vasari, toscano cinquecentesco, ne ignorò il nome tanto da citarlo solo tardivamente nella seconda edizione delle sue “Vite”. Seguì, poi, una sostanziale indifferenza se non confusione con un collega dal nome simile: Benozzo (Gozzoli).

Poco valse la sua citazione, a fine Quattrocento, addirittura in un testo sull'aritmetica a firma del grande matematico Luca Pacioli che salutò la “perfezion mirabile” di Melozzo e della sua opera “in Furlì” con il suo “caro allievo Marco Palmegiani”. Si riferiva al ciclo di affreschi che, bombardata San Biagio nel 1944, finirono a colmare le buche delle strade forlivesi con le altre macerie della chiesa irrimediabilmente rasa al suolo. Con un atto di amore civico sarebbe una buona operazione vincere l'algido candore anni Cinquanta della nuova chiesa con una riproposizione, anche moderna, dei capolavori annientati. Già che le opere a lui attribuite sono poche e frammentarie, il che, nel tempo, ha contribuito a dimenticarlo.

Un altro storico forlivese, Paolo Bonoli, nel Seicento gli attaccò il nome “Marco”, forse confondendolo con Palmezzano, mettendolo al suo stesso piano. Un “Marco Melozzo” che è pura invenzione e sarà quasi data per scontata per almeno due secoli. La sorte sfortunata del grande pittore di Forlì sarà riabilitata solo nel 1888 quando la monumentale monografia di Schmarsow aprirà gli occhi alla storia dell'arte riconoscendo il figlio negletto. Così l'oscuro “Marco Melozzo” riottenne il suo vero nome “Melozzo degli Ambrosi” anche se ormai era “Melozzo da Forlì”. Non che si sappia molto degli “Ambrosi” o “Ambrogi”, famiglia di estrazione popolana, presente in città fin dal Duecento ma ben imparentata con altri interpreti dell'arte locale. Il fratello Francesco, e forse in un primo tempo pure Melozzo, era un orafo. Per lui, la madre Iacoba vendette beni immobili allo scopo di finanziarne i viaggi e i soggiorni in luoghi considerati lontani: Urbino, Roma, Loreto.

A Forlì aveva lasciato la sua “brigata”, un gruppo di amici, di estimatori e di artisti che ebbe modo di ritrovare al ritorno delle sue importanti commissioni. Ebbe gran fortuna, in città, con Girolamo Riario che lo volle come scudiero mentre a quanto pare la consorte Caterina Sforza, vedova dal 1488, non lo prese seriamente in considerazione tanto che se ne tornò a Roma. Se la sua fama crebbe, non certo sguazzò nell'oro: tornò presto, per l'ultima volta, a Forlì, per mettere mano con la sua “brigata” alla perduta Cappella Feo in San Biagio. Morrà in città quasi povero, i suoi resti riposano nella chiesa della Trinità. Forlì gli dedicò la grande mostra del 1938, inaugurata alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, una nel 1994 e la più recente del 2011 in occasione della quale Antonio Paolucci affermò che “senza Melozzo difficilmente si spiegherebbe Raffaello”. Il nome di Melozzo che porta Forlì nel mondo potrebbe però essere più “sfruttato” dalla città cui era tanto legato.

Si parla di

Un forlivese al Quirinale

ForlìToday è in caricamento